Più ci si gira attorno, più passa il tempo, più è chiaro che Joseph Mount ha l’invidiabile dono di aver capito tutto, sin da “English Riviera”, il fulminante album dei Metronomy ormai di dieci anni fa, una personalità con un’idea talmente precisa della musica che vuole fare, che ogni nuova produzione della band subisce a variazioni umorali diverse questa sua assoluta fede e capacità di sapere sempre essere sul pezzo, una specie di ammirevole e compiaciuta autorefenzialità che giustamente e, perchè no altrimenti, si ripete in questo “Small World”.
Nato come ennesima riflessione sulle conseguenze della pandemia sulle relazioni sociali e su questo poveretto piccolo mondo da salvaguardare, in verità l’album allude alla questione ecologica, anche dai rimandi della copertina floristica, ma invece mira a proiettarci dentro una parallela visione fanciullesca di questa probabile involuzione virale, come se colti e annichiliti da mesi e mesi di privazioni , dovessimo affidarci ai nostri ricordi delle prime sensazioni per meglio capire il senso delle cose, come se allo stesso modo dovessimo godere ora in questo risveglio dei sensi di questa rinnovata e ritrovata voglia di vivere.
Da qui, i grossi temi trattati in questi brani sin dai titoli inequivocabili come l’iniziale “Life and death”, “Loneliness on the run”, in un veloce saliscendi emotivo che tocca appunto i lati profondi con cui siamo venuti in contatto giocoforza in questi mesi, ma allo stesso tempo come proprio un bambino incapace di stare troppo appiccicato alle brutte emozioni, vi è il tentativo di riappropriarsi del piacere della gioia e della ricerca della stessa, immaginando mondi migliori e scenari rassicuranti (“Love factory”, “Things will be fine”), perchè inoltre finalmente si ritorna anche a suonare, ad essere presenti sulle scene (“It’s so good to be back”).
Al pari di una nuova vitalità che si manifesta in tutte le sue varianti, rimane sempre in un costante fragile equilibrio la formula musicale del gruppo inglese, che ripropone al solito quel pastiche fra elettronica sotterranea alla Abba, vagonate di pop psichedelico stile Fleetwood Mac, sublimi ballate di soul bianco (“I lost my mind”), in un mix eterogeneo che farà ancora storcere il naso a chi li ha sempre considerati troppo derivativi ed incapaci di esprimere totalmente la loro capacità , quando la realtà dopo 6 album è davanti agli occhi di tutti: i Metronomy hanno raggiunto un perfetto status di resistente oscillazione attorno ad una leggerezza compositiva molto figlia del talento malinconico di Mount che si riflette su una band coesa, che riesce a proporre ad ogni album 3, 4 sontuose canzoni (la citata “I lost my mind”, “Loneliness on the run”, “Love factory” almeno), attorniata da brani che potrebbero lasciare interdetti, a dire il vero, per quello che avrebbero potuto essere ma non sono (“Right on time”, “Things will be fine”), sopraffini melodie synth pop del leader ,che bruciano in 3 minuti tutta la bellezza accorpata di due strofe e refrains irresistibili, per poi spegnersi velocemente, come ad esempio anche nell’ intro e nel finale, da lasciare con un gusto dolce amaro in bocca, per quel fascino immediato di vicinanza che ti coglie subito, e ti porta dentro e fuori dall’album con “Life and death” e la quasi stucchevole “I have seen enough” in coda, beffarda ma incantevole nella sua esiguità e sincerità .
Ma questa sensazione è figlia dell’atmosfera di estrema semplicità con la quale sono state concepite e registrate le canzoni, certamente frutto dei tempo e del desiderio di prendere un pò tutto alla leggera, il che porta “Small world” in perimetri più miti, abbandonando le spigolosità dance dei precedenti almeno due album, verso lidi più morbidi, ad eccezione appunto della contagiosa “It’s so good to be back”, come se l’orchestrina Metronomy fosse di nuovo pronta a risalire sul proprio esclusivo vascello, col proprio portentoso capitano, per percorrere scie solo ad essa conosciute, in un proprio mondo, così piccolo da cui non volere mai uscire.
Credit Foto: Alex Lambert