Avete voglia di sentirvi davvero vecchi? E allora andate su Spotify, YouTube o quel che vi pare ad ascoltare le dodici tracce di “Love Sux”, settimo album di Avril Lavigne fresco fresco di pubblicazione. La cantante canadese, sperando probabilmente di far riprendere quota a una carriera arenatasi nell’indifferenza dei più, apre ufficialmente il revival degli anni ’00 con un disco di puro pop punk d’alta classifica, pieno zeppo di ritornelli a presa rapida, motivetti orecchiabili e chitarre elettriche che, per quanto sprizzino energia da tutti i porti, sono sempre e costantemente tenute a bada da quelle classiche atmosfere “sintetiche” che caratterizzano un po’ tutto il rock mainstream di oggi.
A dare una mano in fase di produzione sono due pezzi da novanta della gloriosa scena californiana: John Feldmann, cantante e chitarrista dei Goldfinger, e Travis Barker, tatuatissimo batterista dei Blink-182 ultimamente reinventatosi discografico di successo con un’etichetta tutta sua, la DTA Records. C’è proprio il suo zampino dietro questa sorta di reboot dell’avventura musicale della Lavigne che, dopo la parentesi “matura” del precedente “Head Above Water”, prova a fare un salto indietro di due decenni non tanto per recuperare le sonorità dei best seller “Let Go” e “Under My Skin”, quanto per riallacciarsi al plasticoso, innocuo ma coloratissimo emo-pop-punk di quella che forse è stata la sua ultima uscita rilevante a livello commerciale, ovvero “The Best Damn Thing” del 2007.
“Love Sux”, come suggerito dalle premesse, è un lavoro figlio di un’epoca che non c’è più. è leggero, divertente e a tratti persino gradevole ma, nel complesso, soffre del suo non essere più al passo coi tempi, nonostante gli evidenti tentativi di svecchiare la formula (vedi le parti ritmiche in salsa trap nelle strofe di “Love It When You Hate Me”).
Non fraintendetemi: il pop punk è vivo e vegeto ma, almeno in questa forma (ovvero quella iper-commerciale, “artificiale” al punto giusto da far storcere il naso ai puristi), è ormai una creatura amorfa e irrilevante, tenuta a galla da mestieranti fortunati ma non particolarmente brillanti come Machine Gun Kelly – il celebre rapper riciclatosi rocker che troviamo anche in questo disco, in un buon duetto intitolato “Bois Lie”.
Avril Lavigne ci mette la simpatia e la faccia tosta di chi, alla soglia dei quarant’anni, non vuole ancora mollare la presa, giocandosi il tutto e per tutto per riemergere dalla penombra. “Love Sux” è il suo tentativo di riaprire un canale di comunicazione con gli ex ragazzini degli anni ’00, oggi donne e uomini adulti con lavoro e famiglia: una mezz’oretta di nostalgia pop punk all’acqua di rose, privo di guizzi ed eccessivamente legato alla lezione dei Blink-182 (attenzione all’overdose di na-na-na-na).
Le tracce carine sono più di una: la semi-elettronica “Cannonball”, le zuccherose “Bite Me” e “Love Sux”, le energiche “F.U.” e “All I Wanted”, quest’ultima con il prestigioso featuring di Mark Hoppus. Il resto, detto in maniera molto schietta, vale quel che vale: una rassicurante “involuzione” per Avril Lavigne, cresciuta come interprete (almeno in studio”…) ma non come artista. Un ritorno all’ovile per strappare un sorriso ai figli dei non indimenticabili anni ’00, cresciuti con i videoclip di “Sk8er Boi” e “Girlfriend”.