Nonostante tutti i sintomi di una restaurazione in ambito pop, che in questo clima angosciante non favorisce di sicuro gli artisti nel produrre cose che non rimangano dentro canoni di una voluta condivisione e di trasporto verso i desideri di un mondo esterno fatto per lo più di certezze e qualcosa con cui scaldarsi il cuore, c’è ancora spazio per l’avanguardia, direbbero, per chi comunque traccia il suo sentiero su percorsi non inflazionati, ispidi, dando la propria interpretazione musicale dei tempi presenti.
Su questo piano insiste a dire il vero sin dagli esordi la cantante di origine norvegese che con questo suo nuovo “Classic Objects” continua il suo intreccio fra personalismi lirici e sviluppo musicale, binomio che le viene bene, evidentemente anche meglio in questo tempo di riflessioni forzate, dove in effetti il suo interesse si pone al solito nell’eterno rapporto fra artista e lo scorrere del tempo, fra dimensione creativa e contesto immanente.
Di per sè sarebbe anche una buona base di partenza per avere degna stima di Jenny Hval, che sforna in questo album alcune melodie tra le più riuscite del suo repertorio, con una serie di brani che presentano quasi tutti uno schema collaudato in cui si parte da uno spoken/strofa di introduzione con un contesto sintetico che livella a mo’ di presagio elettronico l’atmosfera, per poi allargarsi in appunto pregevoli melodie pop, spesso accompagnate da un più marcato uso delle percussioni, la nota di varietà di “Classic Objects”, che conquistano, le melodie, in quanto originale digressione di un art pop cantato da questa voce nasale, un pò piatta e poco modulare, insistente a dire il vero, quasi incurante dell’esigenza di una maggiore attinenza rispetto alla soavità delle note suonate.
Che è un pò il limite di tutto il concetto “Classic Objects”, un appunto apprezzabile lavoro concettuale, di cui la copertina dà ampio sfoggio visivo, dove le liriche mai cosi sciolte, sono talmente personali nei riferimenti temporali e emozionali, che non solo mancano di aderenza ma diventano pretesto per una incomprensione, mentre l’evoluzione e maturazione delle canzoni da punto di vista musicale forse avrebbe avuto bisogno di un maggior predominio di un senso dei testi, vedasi ad esempio quello che è riuscito a fare Cate Le Bon rimanendo in ambito art rock con l’ultimo “Pompeii”.
Ne esce un album che fornisce momenti altalenanti di empaticità , che ammalia in certi momenti di fascino quasi sciamanico (“Year of sky”), che confonde al limite dello sperimentale nella coda drone di “Jupiter”, in generale nelle languide ballate come “American Coffeee”, di gran lunga il miglior brano, o nel finale quasi jazz sperimentale di “”The revolution will be not be owned” con un testo finalmente centrato di incontrovertibile verità sui confini attribuibili alle nostre utopie (And this song is regulated by copyright regulations/And dreaming doesn’t have copyright/I guess you could say, The revolution will not be owned), quasi un outtake in breve degli The Necks.
“Classic objects” lascia alla fine una discreta scia di curiosità più che altro, quasi un oggetto particolare su cui fondare una specie di tassello di esclusività per i propri bisogni di egocentrismo, che è poi credo il fine ultimo inconscio di tutta la produzione della Hval, un’esposizione sonora di still life buona per accompagnare momenti di ricerca, magari dotati di qualche ottimo spunto di un livello concettuale appunto diversamente artistico, che a volte tocca il comune sentire, a volte pur riconoscendo una sincera dose di autoironia nei testi, rimane nello stucchevole esercizio di una volontà degna di espressione, ma riluttante il più delle volte alla comprensione.
Credit Foto: Jenny Berger Myhre