Sharon Van Etten è sempre stata, fin dagli inizi della sua carriera, maestra nel mettere a nudo gli equilibri precari del cuore, le incertezze ed i dolori mai davvero esorcizzati. Nel 2019, “Remind Me Tomorrow” aveva innalzato la posta in gioco e spostato tutte le misure, arrivando incontenibile e bellissimo con una dichiarazione d’intenti, sfoderando una fierezza e sicurezza mai espresse prima dalla cantante. Tutte le esperienze vissute ed i confini attraversati, che l’avevano resa più salda nel penultimo album, vengono, però, fatti vacillare e rimescolati in maniera spaesante dalla pandemia ed è da questo caos che nasce “We’ve Been Going About This All Wrong”. Con quest’ultimo disco Sharon Van Etten rimette di nuovo sul piatto tanti ottimi argomenti, in parte nostalgicamente familiari ed in parte totalmente nuovi, facendo i conti con un’ennesima versione di sè stessa e del mondo, nell’impossibile tentativo di chiudere un cerchio che resterà aperto per sempre.
A dar principio all’album c’è “Darkness Fades”, che si schiude in maniera travolgente, dichiarando immediatamente la dicotomia del disco: un rincorrersi di luce ed ombra. Una lotta senza fine, combattuta soprattutto durante le notti insonni, in cui ci si ritrova eternamente e magnificamente in bilico tra l’osservare l’alba ed il tenersi per mano sulla soglia della fine del mondo, mentre anche le stelle cadono.
In “Home to Me” Van Etten canta direttamente al figlio, lanciando nel mare del futuro un messaggio, che in realtà è quasi un desiderio: “The only child, don’t turn your back, don’t leave / You’re on my mind, do you not see? / I need my job, please, don’t hold that against me“. Intimo timore, o forse presagio del momento in cui il giovane figlio l’accuserà e le chiederà di fare i conti con la scelta di essere al contempo madre e musicista.
I toni cambiano con “I’ll Try”, un pezzo riconducibile alle proteste dell’estate del 2020, in cui la cantante punta il dito contro le promesse dell’alta società , non mantenute unicamente allo scopo di preservare uno status di comfort e privilegi. Altro brano potente ed emotivamente politico è “Born”, intriso di frustrazione e rabbia per le cose che dovrebbero cambiare e che invece non accennano a migliorare, come, ad esempio, il cambiamento climatico e la violenza armata. Van Etten canta “I wanted to break / Something like an innocent child / Walking by fire / Not another bullet in vain”, infrangendo la barriera creata da batterie, chitarra e sintetizzatori ed oscillando tra disperazione e delusione.
Se i primi accordi di “Anything” sanno di dèjà -vu, riportando fulmineamente alla mente l’immensa “Give Out” (“Tramp”, 2012), “Headspace”, al contrario, ci fa avventurare tra le faglie più personali del disco, cantando dell’intimità romantica e della conflittualità sessuale che può emergere nelle relazioni a lungo termine “Pull my hips, remind you, see/Ten-year-old white cotton briefs want play/ Baby, don’t turn your back to me“. “Come Back”, invece, è la magnifica ballad del disco, che ci riporta indietro alle classiche corde malinconiche della musicista. La voce di Van Etten apre le nubi ed illumina il cammino che ci riporta al sicuro, sulla via di casa e tra le braccia di coloro che amiamo.
“Mistakes”, a mio avviso piazzata molto male nella seconda metà dell’album, fa da spartiacque tra due pezzi che sarebbero scivolati perfettamente assieme per sugellare la chiusura del disco. Il penultimo brano di “We’ve Been Going About This All Wrong”, dal bel video diretto da Ashley Connor, è senza dubbio la canzone più pop mai scritta da Van Etten, in cui la musicista ammette trionfalmente che “Even when I make a mistake, mistake, mistake/It’s much better than that!“. Una punta di positività ed umorismo che resta incredibilmente intatta, anche sull’orlo del precipizio.
“Darkish”, dalla mite chitarra acustica, e “Far Away”, non chiudono il cerchio di “We’ve Been Going About This All Wrong”, ma lo lasciano quantomeno semichiuso, facendoci intravedere la possibilità di una convivenza tra luce ed ombra, presente sospeso e futuro: “And crazy as can be/ It’s not dark, it’s only darkish / Waiting / Tell me this one thing/ Calling out to where/ Where will we be when our world is done?”
Bloccata nella nuova casa californiana, Van Etten registra “We’ve Been Going About This All Wrong” nel suo home studio, affrontando con infinita caparbia l’isolamento, l’ansia e le domande esistenziali che riecheggiano claustrofobicamente da una stanza all’altra. “We’ve Been Going About This All Wrong” è una spaccatura temporale travolgente, tutto il mondo viene messo in pausa e non resta nient’altro da fare che ripiegarsi su sè stessi e sfoderare la più difficile delle armi da brandire: la pazienza. Non una scelta, bensì un’imposizione impossibile da accettare mentre il pianeta va in fiamme: l’ultimo lavoro della musicista è un nodo che mischia presente e passato racchiudendo, come in uno scrigno segreto, dubbi, pacate speranze, frammentarie logiche interne, anni di distacco, maternità , sensi di colpa, amore ed assenza. “We’ve Been Going About This All Wrong” è una destabilizzante battaglia senza fine che ha luogo, prima di tutto, nel cuore e poi in un mondo esterno stravolto dall’incertezza. Ancora una volta, però, Sharon Van Etten non si tira indietro e, lottando sino allo stremo delle forze e facendo pace con sè stessa e con la sua realtà , ci regala un disco ricchissimo e catartico che l’avvicina di un altro gradino all’olimpo del rock.