I Duster rientrano a pieno titolo fra quelle band di culto che sono sopravvissute ad imperituro oblio grazie a internet. Nati come Valium Aggelein nel 1997, progetto di breve durata la cui carriera è riassunta nell’omnicomprensiva raccolta “Black Moon”, nel 1998 pubblicarono “Stratosphere”, a cui si deve la loro postuma mitizzazione, seguito nel 2000 da “Contemporary Movement”. Si sciolsero infine l’anno successivo.
La band era un trio composto da Clay Parton, Canaan Amber e Jason Albertini, dove tutti suonavano tutto, e il loro genere era pienamente incluso nel filone slowcore, con il fortissimo ascendente della versione sonnambula dei Codeine, più che di quella metafisica dei Low. A far specie era però l’approccio, dichiaratamente lo-fi, sporco e nevrotico, e l’impalcatura sonora, che si calava dentro ambientazioni cosmiche da space-rock.
Come spesso capita nei nostri tempi iperconnessi, se i fan chiamano, le band rispondono (o anche: se la domanda cresce, l’offerta batte cassa, che è la stessa cosa). I Duster sono quindi riapparsi dal nulla sul finire del 2019 con l’omonimo terzo album, ed oggi ci ritroviamo questo “Together” fra le mani, con una prima certezza: il tempo sembra non essere passato affatto.
“New Directions”, catatonica e polverosa (nomen omen), ci riproietta immediatamente nei tardi anni “’90. Il bisbiglio sardonico che anima “Retrograde” è appena un pizzico più vivace, doppiato dalle blandizie melodiche elargite con fatica in “Time Glitch”. Ogni nota sembra emessa con sforzo sovrumano, come in perpetua lotta contro un’ineluttabile narcolessia (e anche la copertina, minimale, sembra suggerire qualcosa di simile).
Persino i titoli paiono ribadire con fermezza l’intenzione di non comunicare assolutamente alcuno spiraglio di vitalità (ad esempio “Sleepyhead”, e le conclusive “Feel No Joy” e “Sad Boys”). Forse è questa la versione “punk” del frenetico mondo odierno, la genuina ribellione che cova in seno: rallentarsi, procrastinare, addormentarsi, meditare ad occhi chiusi sulla bellezza dell’inutilità .
I Duster hanno effettivamente un grande talento nell’idealizzare scene di accidia quotidiana traendone titaniche contemplazioni del tempo che scorre immutabile. Dalla ninna-nanna sinistramente carezzevole di “Teeth” trasuda una stasi emotiva e letargica, deliziosa nella sua malignità . I rimasugli dello “space-slowcore” per cui sono stati riscoperti dominano “Escalator”, che in coda si concede un raro abbozzo di tenerezza (ma forse è solo un sogno, come suggerito dallo scacciapensieri appena udibile nella dissolvenza di chiusura).
Fortissimo il missaggio “‘so nineties‘ in “Familiar Friends” e su “Drifter”, dove, per quattro minuti, si attende annoiati che accada qualcosa: non succede niente. Avrei difficoltà a consigliare un disco di un gruppo così peculiare come i Duster: se il loro album d’esordio (che, essendo stato inciso negli anni “’90, non si può accusare di suonare troppo anni “’90) è uno dei capolavori dello slowcore, allora ascoltare questo “Together” può fungere, a seconda delle proprie sensibilità , da sonnifero o da suggerimento di ascolto. Ma, a conti fatti, è uno dei migliori dischi indie-rock usciti questa primavera.