Parlare di Beatrice, del suo primo disco “Le colline dell’argento” e di tutto quello che, in questi mesi di ri-ascolti dell’album, credo di aver capito sulla sua musica, non credo onestamente possa essere in qualche modo utile nè al lettore che inciamperà su questa intervista casualmente nè all’affezionato, nè tanto meno a Beatrice: lei, dopotutto, ha sempre preferito – anche nelle conversazioni telefoniche che abbiamo avuto, maledetta questa mia perversione per le “profondità ” – lasciare che fosse il disco a parlare, facendo fede a quel vecchio (ma sempre attuale, e rivelatorio) adagio simbolista per il quale più definisci qualcosa, più ne uccidi l’essenza, ne limiti la potenza poetica, ne addomestichi i significati.
“Le colline dell’argento”, in effetti, ha tutto l’aspetto di un prisma di rifrazione capace di far tesoro di alcuni, centrali argomenti portanti che finiscono con il moltiplicarsi nel riflesso violento e, allo stesso tempo, tenerissimo di una sestina di brani che brillano come diamanti grezzi, sfaccettati, polimorfi: tentacoli avvolgenti di un disco complesso, perchè alla complessità dobbiamo tornare ad abituarci, e quindi dico anche “educativo”.
Non che a Beatrice interessi svolgere precisi ruoli generazionali, farsi alfiere di qualche rivoluzione che il cronista di turno può decidere di cucirle addosso, assurgere addirittura al ruolo pedagogico di “apripista” di un ritorno all’antico che, a suo modo, odora di futuro: sono io che dico che, oggi più che mai, abbiamo bisogno di parole giuste, di suoni sinceri, di voli pindarci che possano dimostrarci l’importanza delle piccole cose, dei giusti valori e della convinzione che le parole “giustizia” e “valori” prendono significato solo nella consapevolezza di chi le usa.
Il disco di Beatrice è un disco consapevole, dal paradossale fascino dionisiaco pur nella quasi maniacale ricerca di un’idea di “perfezione” tutta personale e identitaria del meraviglioso ordine sparso (che è pur sempre un ordine…) dei pensieri della Pucci, mosca bianca in un mondo di tafani rumorosissimi, viatico adatto per tornare a credere che un mondo diverso sia possibile. E sono io che lo dico, non lei: spero non me ne abbia, Beatrice, se per una volta ho azzardato a dare una definizione ad un disco che, come sentirete, parla da sè.
Beatrice Pucci, un esordio sulla lunga distanza, il tuo, che avviene ad un mese dal debutto con “Figli”, primo e unico singolo estratto da “Le colline dell’argento”. Scelta in controtendenza, la tua, con i tempi della discografia che oggi, così pare, sembra sempre più interessata a procedere per “piccoli spot” e singole canzoni; ci racconti com’è stata la gestazione del tuo progetto?
Sì, la tendenza di oggi è un po’ quella di fare solo singoli, ne sono consapevole, le motivazioni dietro queste scelte sono chiare. Dato che lavoro per me, con tutti i pro e i contro, mi sono potuta permettere di scegliere di fare come preferivo, e quindi singolo + disco. Questo progetto ha assunto una sua forma in modo naturale, non c’è stato un momento in cui ho detto adesso devo fare questa cosa e pubblicarla presto. Penso davvero di essermi presa il tempo necessario.
“Le colline dell’argento”, un titolo suggestivo per un disco che fa dell’evocazione di immagini eteree, quasi sospese, il proprio fulcro poetico principale. Ma esistono davvero, queste “colline dell’argento”?
La mia risposta è sì e no. Le colline dell’argento sono un luogo immaginario quindi non esistono perchè sono solo nella mia mente. Al tempo stesso esistono davvero, qualcuno le ha anche trovate su google. E ne sono rimasta piacevolmente sorpresa.
“Figli” aveva già messo in chiaro un iter di produzione preciso, che hai gestito in totale solitudine. Hai curato, infatti, l’arrangiamento e la finalizzazione del tuo disco, senza avvalerti di altri supporti se non per il master. Come mai hai deciso di procedere in solitaria alla preparazione del tutto?
Ho deciso di lavorare per conto mio perchè volevo un mio suono, soprattutto il fatto è che quando uno deve registrare deve cogliere il momento. Tempo di mettersi ad organizzare una sessione in studio, chiamare musicisti e un fonico e il momento di innamoramento con la canzone è andato. Si registra una canzone quando si è all’apice dell’amore verso la melodia e il testo. Io, trovandomi per conto mio, mi sono organizzata a poter registrare nei miei spazi.
A questo punto, credo meriti spazio e attenzione capire come ti sei rapportata al processo: i brani nascono tutti in un unico periodo, oppure derivano da una scrittura più frammentata, più dilatata nel tempo?
I brani sono stati fatti nell’arco di sei mesi, quindi sì, un unico periodo abbastanza ravvicinato.
I tuoi brani sembrano raccontare un universo personale che, a proprio modo, si apre a riflessioni più esistenziali, di tutti. Uno dei temi portanti, in questo senso, pare essere quello dell’immobilismo, la paura di non riuscire ad uscire dalla propria zona di comfort. Penso a “Città Sospesa”, oppure a “L’aria di settembre”, o ancora a “Tutto”. In qualche modo, credi che la pandemia abbia influenzato il tuo approccio alla scrittura?
Credo che questi temi siano sempre stati presenti, la pandemia ha solo accentuato e scoperto le crepe che nascondevamo, poi neanche troppo bene. Quello che è riemerso, dopo due anni, forse è anche aver visto alcune realtà che prima potevamo decidere di ignorare. Ora è come se le cose mostrassero la loro natura.
Anche il tema della felicità , intesa come l’oggetto di una ricerca gravosa e pregna di fede, è al centro della tua produzione autorale. In che cosa pensi, oggi, di poter trovare “felicità “? Quali sono le cose che maggiormente ti aiutano a superare i tuoi momenti “no”?
Forse la felicità è nel gioco della ricerca più che nel raggiungimento dell’oggetto, evento o situazione. Nei momenti no cerco di parlare a me stessa in modo compassionevole.
Stai già pensando ad una proiezione live del disco? Oppure la tua è un’attività musicale che senti maggiormente legata all’ambiente dello studio?
Per ora non esiste una rappresentazione live del disco, se non privata tra me e me.
L’idea di live veri e propri si sta facendo strada.