Ho seguito con un certo interesse, lo ammetto, le vicende dietro il progetto La Rosta, alle prese con il crowdfunding (poi rivelatosi un successo) per dare seguito al loro brillante esordio avvenuto sette anni fa con “Roba lieve”.
E’ stato possibile così pubblicare “Hotel Colonial”, che di quel precedente disco riprende le felici intuizioni ampliando, se vogliamo ancora di più, il raggio d’azione musicale.
Dietro questa sigla si celano tre grandi artisti della scena indipendente italiana, tanto che si potrebbe azzardare persino di definire La Rosta un “super gruppo”, vista la caratura di Massimo Ice Ghiacci (bassista e polistrumentista dei Modena City Ramblers), Marco Goran Ambrosi (dei calabresi Nuju) e Andrea Rovacchi (attivo da sempre con i Julie’s Haircut).
In realtà credo si tratti semplicemente di un’ unione spontanea, frutto di un’intesa naturale dei protagonisti, tutti complici nel confezionare undici tracce brillantemente in bilico tra canzone d’autore, folk, country e suggestioni western.
Mettiamo quindi da parte per un attimo l’abusato termine combat-folk (nonostante l’ascendenza MCR) e immergiamoci senza pregiudizi in canzoni evocative come l’iniziale title track, la morbida ballad “La ragazza con il piercing nel cuore”, la placida “Una vita insieme” (forte di un ritornello da accendino) e “La stanza chiusa”, uno strumentale che colpisce l’attenzione con i suoi ricami world.
Non voglio, tuttavia, essere frainteso su quanto premesso poco più sopra: chi vi scrive anzi è un fan della prim’ora del gruppo madre di Ghiacci, ma qui ne La Rosta non c’è un marchio riconoscibile, nè una matrice politica conclamata, cosicchè i singoli pezzi viaggiano più liberi, senza per questo essere tacciati di disimpegno.
E’ un album che corre liscio con le proprie gambe, dai toni intimisti (nella cadenzata e malinconica “Ramingo”), eppure vivaci e briosi (si ascolti l’orecchiabile singolo apripista “Con la poesia”), e dove si alternano con risultati tra l’ottimo e l’eccellente canzoni dalla struttura acustica (l’ariosa “Sul filo”) ed altre dove si impone un magnetico mood blues (penso ad esempio alla profonda “I denti del cane”).
Echi di tex-mex si avvertono invece in “Odore di miscela” a testimoniare una volta ancora la natura contaminata di questo lavoro, davvero vivo e ispirato in ogni sua parte.
Credit foto: Lorenzo Menini