Avevo scoperto con colpevole ritardo il gruppo dei Leda, ma per loro fu amore a prima vista, o meglio, a primo ascolto. I tempi tecnici per una recensione “ufficiale” erano ormai superati ma sentii comunque l’esigenza di dedicarvi dello spazio sul mio blog personale, dove la musica spesso la fa da padrona.
D’altronde in un’epoca in cui l’adagio sembra essere qualcosa del tipo: “mancano le chitarre, i gruppi rock”, ci tenevano a dimostrare il contrario, confezionando canzoni potenti, evocative, dal forte imprinting rock, di derivazione nineties, ma con un apparato sonoro attualissimo.
Nella loro musica sembrava scorrere il sangue di band che amo visceralmente, a iniziare dagli Scisma e i Marlene Kuntz, ma il tutto innestato in una formula personale, con il connubio parole/suoni che specie in alcune tracce si faceva perfetto.
Da allora non li ho persi di vista e ammetto che era tanta la curiosità di ascoltare il loro sophomore, il quale aveva il compito non solo di confermare le buonissime intuizioni dell’esordio “Memorie dal futuro” ma possibilmente di ampliarne il bagaglio artistico.
Con una formazione ormai assestata con l’ingresso di Giorgio Baioni al basso, i Leda poggiano le basi sul talento e la personalità della sua frontwoman Serena Abrami, sulle indubbie qualità tecniche del chitarrista Enrico Vitali e sulla potenza espressiva del batterista Fabrizio Baioni (che con Giorgio crea una sezione ritmica ferrata e coinvolgente), e si sa che quando tutti gli ingredienti sanno fondersi nel modo migliore, ne può conseguire qualcosa di entusiasmante.
Con queste premesse, l’attesa per ascoltare il nuovo lavoro si era fatta sentire e c’è da ammettere che già le sensazioni suscitate dal suggestivo singolo omonimo erano state buone, trattandosi di un brano solido musicalmente ed evocativo il giusto a livello di immaginario.
L’impianto musicale ribadisce certe coordinate rock ma l’aggiunta di pepe è data da un utilizzo, mai invasivo ma di certo più preminente, dell’elettronica, che pervade a livello di atmosfera il disco, connotandolo di implicazioni dark-wave, mettendo quindi in primo piano più le oscurità rispetto ai colori.
Non dobbiamo però intendere questo album come pessimista o negativo, perchè l’energia è sempre notevole, così come la spinta propulsiva dell’opening-track “Il politicante”. Le liriche sono forse quanto di più diretto mai partorito dalla Abrami e di pari passo si muove una musica incalzante, dove ogni strumento prepara il terreno per il dirompente ritornello in una sorta di climax emotivo.
Il mood cambia notevolmente proseguendo nella scaletta, ed è una piacevolissima sorpresa quella che si incontra all’altezza di “Niente è lo stesso”: l’incalzante parlato/recitato di Serena, affiancato dall’incedere ritmico provoca una sensazione di avvolgimento totale. Potremmo azzardare un accostamento insolito con i Massimo Volume ma il tutto deflagra poi, dopo la tempesta iniziale, in un ritornello immediato e ricco di pathos.
La terza traccia spiazza un po’ per l’inaudita potenza iniziale, in odor di grunge, mentre si plana in territori apparentemente più morbidi con “Insonnia”, i cui i messaggi in realtà paiono criptici, per non dire sinistri. E’ qui che l’elettronica scura entra maggiormente in gioco, e viene naturale inserire anche i Depeche Mode tra le influenze del quartetto marchigiano.
Si prosegue senza intoppi fino al finale, imbattendosi felicemente anche in’autentica chicca, che vede protagonista assieme ai Nostri il cantautore Paolo Benvegnù, quasi a rimarcare le affinità – riscontrate soprattutto nel disco d’esordio – con i suoi Scisma.
“Tu mi bruci” ha un’aura misteriosa, sgorga fascino e intriga per le soluzioni musicali raffinate, come a farci intendere che nelle corde dei Leda, nel background dei suoi protagonisti, ci sia spazio anche per la musica d’autore. Un ulteriore indizio in tal senso ci giunge in soccorso con la struggente “Quasi ombra” che chiude il disco affidandosi a toni soffusi e sognanti.
La prova del secondo album è quindi superata alla grande, con una formula che si è consolidata inserendo appunto elementi diversi.
Il gruppo musicalmente, se vogliamo, appare più coeso, nonostante in realtà abbia mostrato più versatilità ed eterogeneità , mentre sulla voce, che altro c’è da aggiungere? Credo quella della Abrami sia una delle più belle in circolazione in quanto ad espressività , intonazione e capacità di rapirti sin dalle prime note.
Ed è particolarmente interessante anche la sua scrittura, molto evocativa, che si traduce in testi incisivi ma senza disdegnare alcuni tocchi poetici, forte di una metrica che può ricordare lo stile caro a un certo Giovanni Lindo Ferretti.
Il rock italiano sembra poter guardare con ritrovata fiducia al futuro, e se sarà davvero possibile un nuovo rinascimento lo dovremo a quelle nuove band che hanno saputo riportarlo in auge, prendendo esempio dai grandi del passato ma proponendo al contempo una miscela nuova.
E in tal senso, accanto ai nomi spesso (giustamente) citati di Gomma e Post Nebbia, d’ora in poi sarà necessario aggiungere anche quello dei Leda.
Credit foto: Giulio Contigliani