Accorrete numerosi, è il momento di versare le nostre preziose lacrime e dare inizio a quel rito catartico e collettivo che è il rimpianto del nostro passato: il mundial spagnolo dell’82, gli episodi IV, V e VI di “Star Wars”, la rivalità tra Larry Bird dei Celtics e Magic Johnson dei Lakers, i pomeriggi trascorsi con un Commodore 64 e tutti quei giorni gloriosi nei quali i video uccidevano, finalmente, le star della radio. Se già allora non potevamo riavvolgere il nastro del tempo, non possiamo certo farlo oggi, in un contesto storico drammatico, sconvolto dalla pandemia e dalla guerra, che ci impone di chiederci se, domani, avremo ancora acqua e cibo a sufficienza per tutti gli abitanti del pianeta, se potremo avere ancora una casa, un lavoro o un futuro.
“We can’t rewind, we’ve gone too far“.
Ma, invece, noi continuamo, indifferenti e assuefatti, a nasconderci in reboot, revival, remake, prequel e sequel, ripercorrendo, grazie alla tecnologia e alla rete globale, in modo ottimale, ma fondamentalmente poco o per nulla creativo, strade che sono già state tracciate e percorse da altri. Da un punto di vista artistico, questa, dunque, è un’epoca segnata dal riciclo emotivo e sensoriale; abusiamo del prefisso “post”, piazzandolo un po’ ovunque e, spesso, lo facciamo senza capirci nemmeno molto. Crediamo di aver scoperto l’America o peggio ancora l’acqua calda, quando, invece, brancoliamo nel buio in compagnia dei nostri cari e familiari fantasmi.
Post-noise, post-punk, post-metal, post-grunge, nulla si crea e nulla si distrugge, vero? Eppure il celebre principio fisico di Lavoisier sosteneva anche che i cambiamenti sono ineludibili e inarrestabili e che, quindi, ogni cosa, compresi noi stessi e l’arte, è in perenne trasformazione ed evoluzione.
Perchè, allora, noi preferiamo aggrapparci alle nostre zone di confort, seguendo le isterie paranoiche dei media che, a ben vedere, non fanno altro che mettere in pratica, in modo sistematico, la già citata pratica del riciclo e, di conseguenza, si limitano a rivisitare, periodicamente, i medesimi modelli, le medesime mode, i medesimi miti, le medesime sonorità , ammorbandoci con le solite diatribe tra il Rock e il Pop, tra l’Indie e il Mainstream, tra l’Underground e il Commerciale, tra gli pseudo-Beatles e gli pseudo-Rolling Stones, sciocchezze che, onestamente, in una realtà così osmotica ed eterogenea, non hanno più motivo d’esistere?
Il Novecento aveva le sue ideologie, i suoi compartimenti stagni, le sue piccole e grandi certezze. E’ semplicemente questo il motivo per il quale alcuni uomini e alcuni artisti del Novecento faticano a comprendere realtà come quella dei Mà¥neskin.
Un esempio lampante è proprio di questi giorni. Abbiamo letto tutti le parole di Pierpaolo Capovilla. Le sue idee, scritte con fin troppa irruenza, a tal punto che più di uno ha parlato di invidia, vanno però analizzate spostandosi dal gusto musicale. E’ chiaro che non è onesto, intellettualmente, ridurre un evento drammatico ad un banale “Fuck Putin“, ma quante volte band ed artisti hanno utilizzato slogan sintetici ed estremi, che potessero avere una presa facile e diretta sul proprio pubblico? In questo caso però facciamo attenzione che Capovilla, più che alla band in sè, ha proprio posto l’attenzione allo slogan, quasi chiedendo maggior rispetto per chi vuole approfondire la questione dal punto di vista storico, senza venire etichettati subito come ” filo putiniani” in un gioco inevitabile di schieramenti. Poi certo conta anche la forma, e qui Capovilla è stato un po’ carente, portando a fraintendimenti o interpretazioni non così parziali, ma la pulce nell’orecchio a qualcuno l’ha messa.
In ogni caso noi siamo e restiamo un sito musicale. Possiamo parlare di plastica, di Sony Italia, di luccicante glamour Gucci, di un po’ di sano e familiare trash tricolore, di una cover pescata dal lontano 1967 e sapientemente veicolata, ai giorni nostri, grazie a Tik Tok, ma, allo stesso tempo, non possiamo fingere di non vedere 70000 ragazzi e ragazze entusiasti davanti ad un palco.
Ciò che conta, alla fine, è la musica e, per quanto mi riguarda, nel caso dei Mà¥neskin, si tratta di un semplice revival ““ revival ““ di sonorità funky-rock tipiche degli anni Settanta, ottime per le radio e i party, per esuberanti e festose narrazioni goliardiche, magari sufficientemente alcooliche, volutamente esibizioniste, che, nonostante il pensiero arguto di gente del calibro di Steven Wilson, hanno sempre avuto e continueranno sempre ad avere una facile presa sul pubblico, soprattutto su quello più conformista e superficiale, ma che, sinceramente, non possono essere così importanti da decretare la definitiva morte o l’improvvisa rinascita del rock “‘n’ roll. Mi preoccuperei più di gente come Speranza o Franceschini.
Siamo seri, non confondiamo quello che è solo un comune riflesso nel pozzo con uno sfavillante e lucente chiaro di luna.