Partiva qui, in modo brutale e rabbioso l’avventura cibernetica e futurista dei Fear Factory, una band che, nel corso degli anni e della propria carriera, ha saputo creare un sound personalissimo e sopratutto una precisa iconografia e uno scenario adatto al proprio sound, quello dell’uomo sempre in lotta con le macchine, pronte a soppiantarlo in un futuro che, all’epoca pareva lontano, ora forse non più complici anche molte serie TV che hanno cambiato il nostro modo di vedere gli anni a venire. Un mondo distopico quello dei Fear Factory, in cui rabbia, cupezza e mancanza dei valori sembrano togliere la speranza di una vita serenza, sopratutto, come si diceva, per il fatto che l’uomo perde la sua centralità  in favore di soluzioni non più umane (non solo fisiche, ma anche concettuali), con suggestioni cyber-punk che diventeranno sempre più forti, mentre la discografia della band andrà  avanti. Qui siamo solo agli esordi, ma i contorni che si stanno delineando ci appaiono decisamente sinistri.

I Fear Factory di “Soul Of A New Machine” (un titolo più chiaro e programmatico di così non era proprio possibile!) sono decisamente figli del metal e meno dell’industrial, ma mettono in campo quella stessa voglia di sperimentare e di smarcarsi da certi confini che animava gente come Killing Joke, Godflesh, NIN, Ministry, Einstà¼rzende Neubauten e ovviamente i Napalm Death, paladini del grind e precursori assoluti di un nuovo approccio. In un violento mix, in cui il grind-core è l’anima più imponente e l’industrial è un corpo, per ora, ancora in via di evoluzione, ecco che i Fear Factory mettono sul piatto le loro pesantissime carte. I giocatori sono Dino Cazares (chitarra), Dave Gibney (basso), quel dio di Burton C. Bell (voce) e Raymond Herrera (batteria) e le loro visioni apocalittiche si tramutano in un sound che sembra un tritacarne. Ritmica che picchia durissima, Dino che non si concede assoli ma lavora per amplificare il ritmo, come se la chitarra, a suon di riff, servisse solo per aumentare la violenza dei colpi che ci arrivano addosso e poi c’è Burton, l’angelo caduto dal cielo per portarci all’inferno. La sua voce è il massimo dell’espressività  e della versatilità : il growl death e linee vocali pulite e melodiche (gli unici momenti di respiro e di (quasi) purezza in un massacro). Anche in questo caso nel corso degli anni il tutto sarà  approfondito alla perfezione e diventerà  un marchio di fabbrica della band, ma qui, pur essendo ancora al primo passo, non si può fare a meno di notare come la cosa funzioni già  molto bene (“Martyr” e “Scapegoat” su tutte).

Sta di fatto che il disco è una vera e scossa elettrica, un lavoro che infonde drammatiche sensazioni. Restiamo impotenti e senza fiato di fronte a questo scenario, un senso di gelo ci attanaglia e sopratutto c’è la vera e forte sensazione di avere le mani legate di fronte a questa angoscia che ci attanaglia.

Avevo 17 anni all’epoca. I giornali metal erano impazziti per questa band. Tutti ne parlavano e poi c’era il marchio Roadrunner, che, come Earache, per noi giovani metallari era sinonimo di “da comprare!“. Che colpo il primo ascolto, pelle d’oca. E ancora oggi, quando Burton, con la voce pulita, intona “Suffer, bastard” mi lascia senza fiato. L’apice della band non era ancora arrivato, ma questo esordio merita il nostro ricordo, assolutamente.

Pubblicazione: 25 agosto 1992
Durata: 43:13
Dischi: 1
Tracce: 17
Genere: Death metal, Thrash metal, Industrial metal, Grindcore
Etichetta: Roadrunner
Produttore: Colin Richardson

Tracklist:
Martyr
Leechmaster
Scapegoat
Crisis
Crash Test
Flesh Hold
Lifeblind
Scumgrief
Natividad
Big God/Raped Souls
Arise Above Oppression
Self Immolation
Suffer Age
W.O.E.
Desecrate
Escape Confusion
Manipulation