Anche nelle migliori famiglie come IFB ci sono pareri discordanti su certi dischi. Di solito ci fidiamo e accettiamo il verdetto del nostro recensore, ma per certe uscite molto importanti e in grado e di dividere la critica, abbiamo pensato a un diritto di replica, una seconda recensione che potrebbe cambiare le carte in tavola rispetto alla precedente. A voi scegliere quella che preferite”…

Leggi “‘l’altra faccia’ della recensione di “The Car” dei Arctic Monkeys

VOTO OTHER SIDE: 6

Partiamo subito da un presupposto importante. Che il disco sia raffinato e con un, diciamo, taglio cinematografico, non ci piove, che sia suonato e prodotto con la massima eleganza, beh, neanche su questo si può dire nulla…ma…ha un difetto non da poco…è palloso, purtroppo.

Ai primi ascolto (ma pure ai succesivi, vi dirò) ci pare una canzone unica, eternamente ripetuta. Ci si poteva giusto fare un 7″ con 1 pezzo per lato e invece no, i brani sono 10 con un canovaccio sempre simile: introduzioni piacevoli (quella di “Mirrorball” è ottima) poi Alex Turner che chiacchiera sulla ritmica e poi il crescendo finale. Finali che a volte sono pure deliziosi (penso a “Body Paint”, ad esempio, con queste chitarre che graffiano quasi tra il blues e il glam), ma che il più delle volte servono giusto a risvegliarci dal torpore che ci aveva attanagliato, piazzando l’assoletto o gli archi che prendono più fiato (“Hello You” è bello epico, magari ci fosse sempre stato questo piglio). Ecco questo è “The Car”, un disco in cui davvero succede ben poco e pure i ritornelli latitano assai.

Come lo definiamo? Lounge? Pop da camera? Il perfetto sottofondo per un viaggetto in ascensore o per il drink nel bar più raffinato della città ? Mah, potremmo dire di si. Sta di fatto che la noia mi pare farla da padrona. Turner riesce a costruirsi una seria candidatura da crooner? Diciamo che ci prova, ma non convince del tutto.

Gli arrangiamenti elaborati di archi ce la mettono tutta a valorizzare le canzoni (“Perfect Sense” è raffinatissima e come chiusura è davvero ben riuscita), che il santino di Phil Spector e Bacharach stia nelle tasche dei ragazzi non è un sacrilegio dirlo, ma francamente non ci vediamo nulla di rivoluzionario per cui strapparci i capelli o gridare al miracolo millantando chissà  quale maturità , come se ora a rallentare e a essere “eleganti” si fosse maturi e invece a fare guitar-rock si fosse immaturi. Ottimi arrangiamenti non possono coprire pecche in fase di scrittura, anzi, in questo caso corrono pure il rischio di far suonare tutto in modo molto “manieristico” o addirittura generico, quasi a dire che tutto sommato anche il buon Michael Bublè se la può vedere in scioltezza con un disco simile (anche se Michael c’è da dire che ogni tanto tira fuori quella grinta che qui proprio non c’è e pure qualche bel ritornellone). Tra l’altro un disco di Bublè sa anche darci qualche attimo di svago e di scazzo, qui no, gli Arctic sono seriosi e rigidi, pure troppo.

5 secco in pagella? Ma no, il 5 è troppo. Diciamo che il 5,5 sarebbe perfetto. Ma alla fine al 6 il disco ci arriva, vuoi per questa innegabile raffinatezza di fondo, vuoi per gli arrangiamenti ben strutturati, vuoi per qualche leggero particolare che non mi dispiace (tipo la ritmica quasi da Bossa Nova in “Mr Schwart”), ma più di 6 non riesco a dare: nel complesso è tutto tremendamente monocorde e, mi ripeto, la noia ci prende alla gola. Sebbene la band ci provi a esplorare territori nuovi anche all’interno dello stesso lavoro, spostandosi dal funk morbido alla psichedelia suggestiva e crepuscolare, al noir notturno, alla citata bossa nova alla lounge anni ’70, resta evidente la non perfetta sensibilità  per mettere in luce queste varie scorribande, che veleggiano senza guizzi, senza uno sviluppo adeguato o una reale variazione di fondo, con il risultato che tutto si appiattisce drammaticamente.

Credit Foto: Zackery Michael