Ci sono artisti e gruppi che riescono in un lasso di tempo breve a marchiare a fuoco un’epoca, riuscendo a prendersi un posticino nella storia della musica in virtù, il più delle volte, di un linguaggio innovativo unito a un impatto dirompente.

è  quanto successo ai Jam che, capitanati dal giovane e talentuoso Paul Weller riuscirono a contaminare la loro proposta musicale traendo sì linfa dal passato, ma riconoscendo al contempo l’importanza di un fenomeno come quello del punk che stava esplodendo negli stessi anni in cui muovevano i primi passi.

Le ragioni del loro successo risiedono nel fatto che in poco più di un lustro (dal momento in cui si formarono ufficialmente a quando si sciolsero) riuscirono a emergere in modo spontaneo senza l’appartenenza diretta a una determinata scena, sapendo toccare le corde giuste di una vasta fetta della popolazione, soprattutto di coloro che non avevano mai dimenticato la gloriosa epopea dei Beatles (di cui i nostri erano stati grandi fans) e dei Kinks.

Tutti gli amanti del rock, non solo di quello inglese, conoscono la notevole parabola di Weller, che assunse nuova linfa e diverse espressioni con gli Style Council fino a divenire acclamato cantautore dagli anni novanta in poi, assurgendo quasi a guru per una nuova generazione in odore di revival pop (quello passato ai posteri come britpop) ma è indubbio che tutto parti dai Jam, fondati quando era appena maggiorenne.

Con i fidati Bruce Foxton al basso e Rick Buckler alla batteria (e in origine anche con il chitarrista Steve Brookes col quale si conobbe da ragazzino alle superiori), il Nostro –   appena maggiorenne quando fondò la band nel 1976 –   seppe così rinverdire il rock anglosassone innestando il furore di un codice nuovo quale era il punk dei coevi Sex Pistols e Clash (erano maggiori le affinità  con questi ultimi), con la lezione di band come The Who, senza tenere mai nascosto l’amore per il soul e la Motown.

Ne uscì una miscela fresca ed esplosiva ma che doveva necessariamente prendere ancora una sua forma compiuta.

In ogni caso diverse intuizioni interessanti confluirono già  in un buon album di debutto (“In the City”, contenente il brioso singolo eponimo) pubblicato nel maggio del 1977 dalla prestigiosa Polydor che decise di scommettere su questi giovani che si sapevano quanto meno distinguere, non solo come detto per un diverso orientamento musicale ma anche per un’immagine che si rifaceva dichiaratamente ad altri modelli, fino a imporli come dei novelli mods.

Il ferro a quanto pare andava battuto finchè era caldo e così Paul Weller e soci non ci misero molto a dare un seguito al loro disco d’esordio, tanto che “This Is the Modern World” fu pubblicato a circa sei mesi di distanza, precisamente il 18 novembre del 1977.

Sono trascorsi quindi trentacinque anni esatti da allora, tempo più che sufficiente per provare in qualche modo a riabilitarlo, visto che all’epoca fu accolto in modo tiepido dalla stampa e nel tempo giudicato quasi insindacabilmente come l’episodio più debole di una carriera che, lungo un percorso di soli sei anni, ha messo insieme ben sei album di inediti in studio, uno dal vivo e una raccolta, oltre a diciotto singoli!

Posto che i giudizi severi sono giunti in primis dal protagonista, in quanto Weller non si è mai dichiarato amante di questo disco, bisogna ammettere che qualche difetto è in effetti facilmente riscontrabile, ma non al punto da bollarlo come un pessimo lavoro, quasi fosse da scartare in toto.

E’ indubbiamente acerbo e frettoloso, ma certifica senz’altro una certa urgenza comunicativa, la voglia di esserci e di rappresentare una voce; sì, perchè i Jam sembravano con le loro canzoni magari ingenue ma ricche di significati rivolgersi a tutti e non solo a quei giovani ribelli attratti dai gruppi punk.

Poi non si può negare che anche loro siano stati contagiati dall’energia dei Sex Pistols e dal loro approccio diretto, viscerale con il suono, ma c’era anche l’esigenza da parte loro di mediare il proprio stile con un certo gusto pop e un maggiore senso per la melodia.

Weller (autore di quasi tutti i brani in solitaria, esclusi due brani scritti interamente da Bruce Foxton, e una peraltro riuscita cover di un pezzo di Wilson Pickett) infatti ama veicolare messaggi più universali, sullo stile di vita dei giovani inglesi, le loro abitudini, in una sorta di non dico esaltazione ma quanto meno di legittimazione di un determinato modo di vivere tutto britannico nel quale poteva riconoscersi invero gran parte della popolazione.

Ciò non li fece pertanto diventare paladini dell’altra fetta che invece cercava di “rivoluzionare” lo status quo, tanto che da alcuni media furono definiti addirittura conservatori: la storia ci dirà  che in seguito Weller si adoperò in prima persona per diverse cause sociali.

Venendo alla musica si evince un tentativo da una parte di bissare il successo del precedente disco, ma dall’altra anche quello di sconfinare in ulteriori territori musicali, creando alla fine però un ibrido discontinuo.

Rimane evidente la buona qualità  di scrittura, sin dalla rivelatrice traccia iniziale, quasi eponima (vale a dire l’arrembante “The Modern World”) che passa in rassegna alcune trasformazioni e devianze di una società  che si stava modernizzando. L’ironia è un tratto non marginale ma nemmeno preponderante, in quanto c’è la volontà  di porre luce su determinati atteggiamenti o stati d’animo in un’ottica più matura rispetto a quella dei coetanei.

La canzone ha un tiro davvero forte e rappresenta un ottimo biglietto da visita per l’album, e tali positive sensazioni sono fornite pure dalla successiva “London Traffic” (a firma Bruce Foxton), emblematica sin dal titolo, graffiante e sufficientemente debitrice di certo garage rock, oltre che dalla punkeggiante “In the Street, Today”, scritta con l’amico Dave Waller.

Decisamente più morbidi, per non dire annacquati, paiono invece episodi come la didascalica “Standards”, l’irriverente ma tutto sommato innocua “Here Comes the Weekend” o la mid-tempo “Don’t Tell Them You’re Sane”, ma quando il trio vuole rallentare i ritmi e concedersi toni da ballads i risultati, seppur ancora non del tutto a fuoco, sono promettenti, vedi la sognante “Life from a Window” o la passionale “London Girl”.

Ci sono però anche sprazzi di futuro, di quello che soprattutto Paul Weller avrebbe definito nel corso della sua carriera, specie in veste solista, nella romantica (e ben equilibrata in ogni sua parte) “I Need You (For Someone)” e in una evocativa “Tonight at Noon”; di certo apprezzabile è anche la loro versione di “In the Midnight Hour”, classico di Wilson Pickett qui resa in una convincente chiave rock.

Tirando le somme, posso arrivare a definire interlocutoria questa seconda prova a nome The Jam, ma non la considererei mai come superflua, perchè i prodromi di una loro piena affermazione si possono individuare facilmente tutti qui dentro.

Forse loro stessi dovevano per primi trovare ancora una propria via, differente da tutto il resto, ma la volontà  di creare un linguaggio e un immaginario personale era già  ben presente, con tante piccole scintille creative disseminate qua e là .

Il gruppo era in fondo in una fase evolutiva, i visi dei ragazzi immortalati in copertina ancora imberbi, ma i loro sguardi erano già  consapevoli mentre scrutavano un orizzonte che immaginavano sereno e portatore di grandi novità .

Il loro fuoco creativo non aveva certo smesso di ardere, anzi, stava divampando velocemente, tanto che per formare un corpus musicale e narrativo più complesso e definito si sarebbe atteso soltanto un altro anno, quando “All Mod Cons” avrebbe chiarito una volta per tutte il loro prossimo ruolo nel novero del rock inglese.

The Jam ““ This Is the Modern World
Data di pubblicazione: 18 novembre 1977
Tracce: 12
Lunghezza: 31:19
Etichetta: Polydor
Produttore: Vic Smith, Chris Parry

Tracklist
1. The Modern World
2. London Traffic
3. Standards
4. Life from a Window
5. The Combine
6. Don’t Tell Them You’re Sane
7. In the Street, Today
8. London Girl
9. I Need You (for Someone)
10. Here Comes the Weekend
11. Tonight at Noon
12. In the Midnight Hour