Il fascino di band come gli Snake Chain sta tutto nella sensazione di pericolo che la loro musica genera, l’impressione forte che camminino in bilico sull’orlo dell’abisso senza staccare mai gli occhi dal bordo. Fragili equilibri, rischio d’implosione alto, altissimo eppure staccarsi dai dodici brani del loro omonimo disco d’esordio risulta molto difficile. Potevano nascere forse solo nella cupa Londra pandemica e post Brexit, trascinati dall’estro e dalla voce della frontwoman Kate Mahony, spalleggiata da Robert Eyres (chitarra e sintetizzatori) Chris Hopkins (basso chitarra e sample) e Joe Fergey (batteria) in performance sempre al limite.
Musicalmente possono ricordare gli albori dell’hardcore, i Cramps, dei Dry Cleaning più primitivi, tribali, incontrollabili e imprevedibili. Autori di una mezz’ora di musica feroce e senza compromessi che la Mahony ha descritto con parole di fuoco (“crying in a Catholic sex dungeon with Eastenders on“) vivono di adrenalina tra chitarre urlanti, testi declamati con furia e sarcasmo, una sezione ritmica affiatata e largo uso di sample soprattutto televisivi che vengono distorti, manipolati, inseriti nei momenti meno ovvi.
Nulla di nuovo questo va detto, tutte tecniche ampiamente sperimentate dai Throbbing Gristle in poi, ma l’urgenza trasmessa dal quartetto è irresistibile e contagiosa. Brani veloci e martellanti come “Copy Me” e “Cavalry” si alternano a canzoni più lunghe, complesse, perfettamente formate come “Highly Conceptual”, “Architecture” e “Internet”. Un mondo strano e familiare, popolato da cowboys, finanzieri senza scrupoli, uomini difettosi come “Mike” e “Arthur”, incubi e terrore fino alla catarsi dell’ipnotica “Duck” che si apre con il canto del gallo, fine o inizio di ogni illusione. Non adatto a ingenui e sognatori “Snake Chain” finisce per rappresentare la frantumata realtà odierna con l’impeto di chi vuol sopravvivere.
Credit Foto: Ashley Hassell