“Welcome, to the 1st Congregational Church of Eternal Love and Free Hugs”
I teatri classici, un po’ come il Regio di Parma, sono delle vere istituzioni musicali e teatrali. Templi della sinfonia passata, casse di risonanza delle voci operali, palcoscenici delle migliori opere tragiche, siamo abituati a questi luoghi come location così distanti dalla musica contemporanea d’oggi (quella che fa casino, intendo). Fa strano quindi dover pensare alla contrapposizione, quasi studiata e decisa per gioco, tra il classicismo di un tempo e l’eclettico contemporaneo: tra affreschi a soffitto, palchetti vellutati di rosso, oro scintillante a decorare ogni singolo centimetro non saprei definire se i concerti con bpm oltre un tot siano fatti per questi luoghi.
Per il Barezzi Festival, l’ultima serata (a distanza di settimane dal nucleo principale della querelle) vede salire sul palco una band che poco ha a che fare coi giovani d’oggi, che ha avuto il suo passato (quasi) di gloria negli anni ’90 e che ora cerca di farsi strada in un mondo dove lo psych-rock vecchio stile non serve ad un cazzo immerso in questo grande calderone di generi e suoni: signore e signori, i Kula Shaker di Crispian Mills.
Proprio una toccata e fuga: ho preso il treno da Milano a filo (e già in ritardo), sono arrivato a Parma e ho subito corso per essere puntuale in teatro. Perchè sì, a teatro si arriva puntuali. Un concetto che non è stato capito, a mio avviso, dal pubblico che ha preferito rimanere nel temporary bar della location per entrare ai tre squilli già ultimati ovvero l’avviso che lo spettacolo stava per iniziare. Ad aprire gli inglesi, un gruppo di 5 virtuosi musicisti del conservatorio locale: violino, viola contrabbasso, violoncello e una bella fisarmonica a re-interpretare i grandi classici come “Piazza Grande” di Dalla o “Bittersweet Simphony” dei Verve. Il problema è che non si sentiva niente, il tutto veniva sovrastato da persone che a teatro non erano abituate ad andare e che quindi non sapevano che ad aprir bocca, quando uno strumento classico suona, fai solo del gran casino.
L’arrivo dei Kula Shaker, dopo quasi 5 anni di assenza, non è stato domandato a gran voce: solo all’arrivo del frontman, e degli altri componenti, con chitarre e strumenti vari in mano allora sì che il pubblico si è fatto sentire. Il primo pezzo, uno dei più iconici ovvero “Hey Dude”, è stato introdotto da un virtuosismo di corde elettrico anche fin troppo duraturo: sarà un modus operandi abbastanza ricorrente durante il concerto, ma dopotutto che cazzo vuoi dire a Crispian.
La bellezza però di un gruppo così rodato e sofferto come questo è che tu, fan tra il pubblico, non ascolterai mai la versione più vicina a quella studio, bensì quella più lontana. Con loro succede sempre così: è il caso di “Sound Of Drums”, di “Grateful When You’re Dead” o anche della famosa e bellissima “Tattva”. Sembra quasi quindi un’adorazione verso Mills, una sorta di celebrazione ascetica dal vivo che un ascolto vero e proprio. Sia chiara una cosa: con l’idea della chiesa, della congregazione, di lui che si veste da prete e che ci dà la sua benedizione (è successo veramente) tutto questo ci sta. Certo, l’auto esaltazione derivante dall’ego di una persona non deve poi influenzare il resto.
Ed è proprio quello che è successo: per ben un’ora e mezza ho ascoltato il miglior rock con quel sapore retrò tipico di questa band, ho adorato ogni singola nota distorta e ogni singolo virtuosismo strumentale, ma non sono riuscito a sopportare per più di cinque minuti il grande egocentrismo di Mills. Egocentrismo che si è elevato all’ennesima potenza quando dal pubblico è arrivata la richiesta di “Great Hosannah”, una delle più belle canzoni del gruppo, che a sorpresa è stata accolta e poi suonata. Questo è stato l’ultimo banco di prova del frontman per farsi vedere ancora di più, toccando la vetta con l’ultima canzone ovvero “Govinda”.
A rigor di logica n’è valsa la pena: sono dell’idea che i Kula Shaker siano una grande band dal vivo, che si regge però sulla figura esorbitante del frontman. E sempre a rigor di logica, seppur abbia adorato la location, quest’ultima non è fatta per un concerto “non classico”: la platea e i palchi erano sold-out di persone sedute, se ti alzavi arrivava la maschera a chiederti di sedere e solo quando abbiamo avuto il permesso di Mills ad alzarci allora lì il management teatrale non poteva più dirci niente.
La band inglese ha fatto il suo tempo, ma ancora continua sulla stessa strada di 30 anni fa e non ha intenzione di provare nuovi percorsi. Lo stile rimane quello, incontrastato e imbattuto da nuove correnti. Non possiamo chiedere altro a loro, sappiamo che cosa andremo ad ascoltare, e se i Radiohead per Mills sono “la band più sopravvalutata del pianeta” questo ci fa incazzare e ridere allo stesso tempo poichè dopotutto non ascoltiamo dal vivo i Kula Shaker, ma in primis l’egocentrismo del suo frontman. Quindi, sempre a rigor di logica, il nuovo album dovrebbe chiamarsi “1st Congregational Church of Crispian Mills and His Eternal Ego”.
Credit Foto: Kike Oquilas (CC BY-NC-ND 2.0)