“Push The Sky Away” è il quindicesimo disco in studio per Nick Cave & The Bad Seeds il primo senza Mick Harvey fuori dal progetto, che lui stesso aveva contribuito a fondare, nel gennaio del 2009. Il disco registra altri due importanti passaggi in termini di line-up: segna infatti il ritorno tra le fila dei Bad Seeds Barry Adamson, altro membro fondatore lontano dalla band dai tempi di “Your Funeral… My Trial” (1986), e l’ultima apparizione nella storica formazione di Conway Savage tastierista e pianista che ci lascerà nel 2018.
Composto in circa 12 mesi Nick Cave all’epoca definì così l’album:
…se dovessi usare quella logora metafora degli album come bambini, allora “Push The Sky Away” è il bambino-fantasma nell’incubatrice e i loop di Warren sono il suo piccolo, tremante battito cardiaco.
La copertina, diventata ormai iconica, è invece opera di Dominique Issermann e ritrae Susie Bick, moglie di Cave, nuda mentre il marito lascia entrare luce nella stanza da una delle finestre e nasce quasi per caso durante un set fotografico per un magazine di moda al quale stavano lavorando il fotografo e la modella.
Celebriamo i 10 anni di “Push the Sky Away” recuperando la recensione scritta all’epoca dell’uscita del disco dal nostro Gianluca Ciucci:
Queste sono le recensioni più facili, quasi mai le meglio riuscite. Si imbottiscono le righe di biografia di un uomo che ha vissuto varie vite, discografia di un signore che ha pubblicato una trentina di dischi, nel caso di Nick Cave poi pure compositore di un pugno di colonne sonore, scrittore di un paio di romanzi per non parlare delle sceneggiature alle quali ha messo mano, alcune delle quali anche interpretare da attore. Fatto questo si ragguaglia il lettore (ovviamente ben disposto nei confronti dell’artista, non esiste essere umano che disprezzi Cave) su chi è venuto meno e chi è entrato nel gruppo, si scrivono due cose sui pezzi piaciuti di più e via. Fatto.
Non si può disprezzare Nick Cave e i suoi Bad Seeds, non si deve, perchè se ha senso ascoltare e parlare di musica rock, loro sono tra i maggiori depositari di tale sensatezza. Allo stesso tempo va ricordato che da oltre tre lustri (più di quindici anni dunque) la band in questione, il suo frontman in particolare, è passata da status di icona a quella di marchio, non per niente ritratta e chiamata in causa su media che non hanno la musica come campo di interesse principale.
Parallelamente a partire dalla folgorazione cristica di “No More Shall We Part” abbiamo ascoltato lavori sempre meno interessanti, di grande fascino alcuni, un po’ stinti altri, sempre ottimamente suonati è ovvio ma che non avrebbero in nessun modo potuto ingrossare le fila degli estimatori, al massimo deludere qualche duro e puro dei tempi belli (che è già una grossa soddisfazione immagino). La quantità di prodotti aumentava e la qualità si abbassava, non si sfugge da questo assioma e neppure artisti di livello come quelli di cui stiamo parlando ne sono immuni.
Più che di qualità parlerei di pregnanza, di portata storica anche, sempre per il fatto che quando si parla di Bad Seeds la qualità musicale non è in discussione, basta andarli a sentire dal vivo (fatelo) per tornare a casa e incendiare tre quarti della propria collezione di dischi.
Insomma il nuovo millennio non è stato esaltante per il Re Inchiostro, a parte il progetto Grinderman per il quale ancora deve sbollire la mia adrenalina. Non fa eccezione “Push The Sky Away”, primo lavoro senza Mick Harvey e che vede sempre più due uomini al comando: Cave e Warren Ellis, inseparabili e artisticamente indistinguibili. Di questo lavoro si apprezzano, oltre alla splendida ed elegantissima copertina che iTunes ha pensato bene di deturpare, la straordinaria eleganza e l’inquietudine che scorre sotto la pacatezza dei modi, il senso di accerchiamento di alcuni brani come l’iniziale “We No Who U R” o “Water’s Edge”, gli accenni di elettronica che uniti al lavoro di basso regalano lo splendido timore di venire aggrediti senza che questo accada mai.
La temibile purezza del post-punk di “We Real Cool”, il blues come solo loro lo sanno suonare di “Higgs Boson Blues” e la chiusura cinematica (sarebbe stata bene in “Twin Peaks”) della traccia che dà nome all’album. Cave smette i panni di rocker sguaiato che avevano sostituiti quelli di improbabile crooner, per indossare la giacca da cantante confidenziale, talmente confidenziale da sussurrarti cose terribili rimanendo perfettamente impassibile. Un grande, prescindibile, disco. Come avevo detto è stato facile.