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Attendevamo al varco i Backlash già da un po’ di tempo: la loro innegabile crescita era stata testimoniata da una serie di brani anticipatori che avevano fatto decisamente salire l’attesa per il nuovo album “Rise”, che non ci ha affatto deluso. Anzi. I Backlash hanno lo sguardo e il cuore musicale rivolto ai magici ’90 inglesi, quelli in cui le chitarre di eroi come Verve, Ride e i primi Oasis disegnavano parabole sonore per cui perdere letteralmente la testa. La profonda conoscenza di quel panorama musicale guida la band lombarda in una scrittura evocativa di profumi passati, certo, ma nello stesso tempo personale e incisiva. Tanto sonici e shoegaze (come insegnerebbe Mark Gardener) quanto dilatati e psichedelici (per la gioia di Nick McCabe), i Backlash sanno scrivere ottimi brani che entrano in testa senza dimenticare la doverosa parte più emozionale.

Il quartetto al completo si mette a disposizione per rispondere alle nostre domande su un disco che, fin dal primo ascolto, entra subito in circolo.

(L’intervista, nella sua forma originale, è sul numero 510, Febbraio 2023, di Rockerilla)

Ciao ragazzi, come state? Inizio da un particolare che mi ha colpito. Le note stampa dicono che i Backlash hanno iniziato il loro percorso nel 2013. Siamo già a 10 anni di attività. Sinceramente vi sareste immaginati una carriera così longeva? Che effetto fanno 10 insieme?
Luca: Ciao Riccardo, stiamo bene grazie! Anche se è passato tanto tempo, ricordo benissimo che quando abbiamo formato la band Francesco, Alessio ed io (Federico si è aggiunto a noi un paio di anni dopo) avevamo davvero una grande voglia di fare musica insieme. A quanto pare facevamo sul serio: siamo fieri di essere riusciti ad incastrare i diversi caratteri, far convivere diverse idee e punti di vista. Abbiamo amalgamato il tutto nella nostra musica, che è cambiata e cresciuta mentre anche noi crescevamo e siamo arrivati al nostro decennio di attività, senza nemmeno essercene accorti.

Il vostro esordio, usciva nel 2018. 4 anni di distanza dal nuovo album non sono pochi. È stata solo la pandemia a cambiare i vostri progetti o comunque un tempo così lungo era necessario per arrivare ad avere un disco che potesse soddisfarvi completamente?
Luca: È inutile nasconderlo, sicuramente la pandemia ha bloccato molte attività e, anche nel nostro piccolo, ha bloccato il nascere di nuovi progetti. È ancora freschissimo il ricordo di quel dicembre del 2019 in cui stavamo finalizzando il nostro EP, impazienti di portarlo in giro con i live, ma poi sappiamo tutti com’è andata.

Federico: Diciamo che la pandemia ha sicuramente fatto sì che ci servisse più tempo per arrivare ad essere pienamente soddisfatti del nuovo disco. Perché abbiamo dovuto interporre mesi di stop alle attività di registrazione e produzione e quando è così, si rischia di perdere il ritmo.

Francesco: Non era nei nostri piani metterci così tanto, proprio perché “Mindtrap”, il nostro primo LP è uscito, a sua volta, quattro anni dopo il nostro primo EP “3rd Generation. Passing By”, di inizio 2020, doveva essere il primo di una serie di EP che avevamo in mente di pubblicare in rapida sequenza (almeno uno all’anno). Questo perché, da quando abbiamo uno studio di registrazione e faccio io da fonico/mixing engineer, possiamo ridurre al minimo il tempo tra quando abbiamo voglia di registrare qualcosa a quando abbiamo i mix pronti nelle nostre mani.

Alessio: L’idea che avevamo (e che stiamo cercando di riprendere ora), è quella di rendere continuo il ciclo che tiene viva la nostra attività: scrivi le canzoni nuove, quando pensi sia arrivato il momento giusto le registri; le integri nella scaletta per i concerti e quando il live è pronto vai in giro a farle conoscere. Durante questa fase le “nuove” canzoni iniziano ad essere in realtà “vecchie” per noi e ci troviamo a scriverne di nuove, pronti a rifare tutto d’accapo.

Francesco: Così, quando l’attività promozionale di un disco volge al termine stai, di fatto, già lavorando al prossimo. Abbiamo individuato in questo loop la chiave per trovare nuovi stimoli ed andare avanti, magari per altri dieci anni.

Prima di addentrarci nel nuovo disco, lasciatemi citare il nome di James Aparicio che ultimamente sta ricorrendo spesso con ottime band italiane (penso a Rev Rev Rev o Clustersun) e ora lo vedo associato a voi. Come vi siete incrociati con lui?
Luca: È stata Monica, la nostra manager, a metterci in contatto con lui. Lo conoscevamo perché, come dici tu, ha lavorato con diverse band con le quali abbiamo diviso il palco nelle ultime uscite. Ci piace molto lo stile di James e siamo soddisfatti del suo lavoro. D’altronde non ci aspettavamo niente di meno da uno che vanta, tra i suoi credits, artisti come Spiritualized, Depeche Mode, Mogwai, Moby, Nick Cave / Grinderman.

Sempre più quei riferimenti “made in UK” che spesso vi hanno accompagnato nella vostra carriera sono stati ormai pienamente assorbiti e, come dire, personalizzati. In questo disco la vostra bravura sta sia in una scrittura rigogliosa e superba, sia nella capacità di farci dire “mi ricordano…”, salvo poi emozionarsi perché quel collegamento a una certa band è sì evidente, ma poi (e qui sta il bello) è elaborato e fatto proprio al 100%. Questa è la mia sensazione, voi che ne dite?
Francesco: Mi fa piacere tu dica questo. Io posso provare a raccontarti come penso che quei riferimentifiniscano nella nostra musica. Quello che osservo, se ripenso a come abbiamo arrangiato qualunque dei nostri brani nei vari periodi della nostra carriera, è che ci siamo sempre e solamente fidati del feeling che ci davano i pezzi, mentre li suonavamo. Qui entra in gioco il gusto di ciascuno di noi, che nei vari periodi dellanostra attività, poteva essere influenzato dagli ascolti personali di quel particolare momento storico. È così che credo che le influenze riescono a permeare, perché, d’altro canto, non abbiamo mai intenzionalmente provato a fare qualcosa alla maniera di quella band lì o suonare in un determinato modo per strizzarel’occhio a quella scena là. Non abbiamo mai avuto timore di soddisfarci, di assecondare solo il nostro gusto,con zero calcoli sulla direzione sonora da prendere. Eppure ascoltando i nostri dischi, si sente che siamocambiati tanto negli anni. Nel bene e nel male, questo ci rende quello che siamo.

Non avete paura ad alzare il minutaggio dei brani: adoro i vostri climax e come i pezzi crescano letteralmente sotto i nostri occhi. Spesso ascoltando i vostri brani, proprio per la lunghezza di certe composizioni, mi sembra letteralmente di compiere un viaggio, la forma canzone è mantenuta, ma mi sembra proprio che il vostro intento sia quello di toccare aspetti più emozionali, che vanno oltre la classica costruzione strofa/ritornello per avere un buon pezzo guitar-pop, mi sembra che voi cerchiate qualcosa di più totalizzante, un po’ come insegnavano i “maestri” Verve nei primi dischi. Sbaglio?
Federico: Non sbagli, e questo è esattamente in linea con quello che diceva Francesco. Anche sul minutaggio dei brani, è il nostro gusto a guidarci: se c’è un loop che gira per cinque minuti è così perché, evidentemente, anche 10 secondi in meno sarebbero per noi sbagliati.

Alessio: Hai citato i Verve dei primi dischi, e non potevi scegliere riferimento migliore: è una di quelle band che ci mette tutti d’accordo.

Curioso però che proprio il brano che dà il titolo al disco sia il brano più diretto e classico, passatemi questo termine, con il minutaggio più basso. Brano micidiale e dritto al punto. È la testimonianza che anche se vi muovete sui 3 minuti andate via alla grande. Che ne dite?
Francesco: Visto che quello è un brano punk rock, è quasi troppo lungo. Scherzi a parte, “Rise” si è praticamente scritta da sola, credo in una sessione di prove. E la volta successiva in cui è stata suonata era durante la sessione di registrazione.

Posso dire che “My Wrong” è un pezzo che avrei visto perfetto su “Be Here Now” degli Oasis se solo Noel Gallagher avesse avuto più predilezione verso lo shoegaze invece che i Beatles?
Luca: “My Wrong” è una cavalcata vera e propria: inizia in sordina come se arrivasse qualcosa da lontano e poi ti travolge completamente. Sicuramente è un pezzo potente e live è un pezzo unico, lo suoniamo sempre in apertura dei nostri live. Sai che non riesco ad immaginarmelo un Noel Gallagher con maggiore predilezione verso lo shoegaze che i Beatles? Di sicuro, per il Noel di “Be Here Now”, “My Wrong” avrebbe troppe poche linee di chitarra.

Ma in “Loosen Up” è venuto “San” John Squire a dare la sua benedizione?
Francesco: Sono devoto a quel santo da quando ero un ragazzino. Il solo fatto che ti sia venuto in mente ascoltando le chitarre di quel brano, mi onora. In “Loosen Up” sento anche un po’ di Peter Hayes, altro riferimento per me fondamentale.

Everybody But Me” è magnifica. Sembra arrivare dritta dagli anni ‘90, quando una band come i Ride, con i primi due dischi, dettava veramente legge. Quanto il duo Mark Gardner e Andy Bell è importante per il vostro sound?
Francesco: Ecco, “Everybody But Me” è un altro dei nostri pezzi più importanti, dove credo ci sia un po’ tutto di noi. Il brano gira intorno a tre accordi, sempre gli stessi, in loop, ma giochiamo tanto con le dinamiche per creare i vari “momenti” del pezzo.

Alessio: Riguardo ai Ride, tra tutte le band del panorama shoegaze di quegli anni è decisamente quella cui siamo più vicini, da un punto di vista stilistico.

Far Away” è, con la sua popedelia avvolgente, uno dei punti più alti del disco. Una melodia che volaaltissima e ci fa sognare. Come è nato questo brano magnifico?
Federico: È figlia di un processo di arrangiamento “vecchio stile”, più simile a quello che abbiamo avuto fino al nostro primo LP, “Mindtrap”. Ovvero, si partiva da una canzone scritta da Francesco, chitarra e voce, e la si arrangiava insieme, in sala prove.

Francesco: Si, vero. È uno dei rari casi in cui ho portato una ballata in sala prove per proporla agli altri. È qualcosa che capita solo quando intravedo una potenziale “chiave psichedelica”, nell’arrangiamento con la band. Un altro esempio è Behind a Locked Door, ultima traccia di “Mindtrap”; anche quella, come dici tu, è molto popedelica.

Vi offendete se vi dico che The Backlash mi ha riportato alla mente i The Music? Taglio ballabile, un giro quasi “zeppeliniano”, che ne dite del paragone?
Luca: Ecco un altro esempio del fatto che quando scriviamo dei brani seguiamo solo l’istinto e il nostro gusto, senza fare troppi calcoli. Se ci pensi, questo pezzo c’entra poco con tutti gli altri, come dici tu ha un giro quasi “zeppeliniano”. Comunque no, non ci offendiamo affatto per l’accostamento ai The Music, anche se non ci avevamo mai pensato, a dire il vero.

Alessio: Questa canzone è una sorte di inno scanzonato a noi stessi. Il testo è una serie di flash di cose che ci sono successe mentre eravamo in giro a suonare, nei nostri viaggi all’estero. Ci sono dentro cose che hanno un senso solo per noi. E nonostante sia ballabile, ha un che di malinconico: “We never dream like We should“.

Che bello l’assolo finale in “Into The Deep”. Era già nei vostri pensieri fin dall’inizio o strada facendo avete visto che, dopo un brano così lisergico e cadenzato, l’assolo ci sarebbe stato benissimo?
Francesco: Decisamente non era nei nostri pensieri dall’inizio, visto che “Into the Deep” ha avuto una gestazione molto simile a quella di “Rise”. Abbiamo visto che girava bene durante una prova e la volta dopo la stavamo registrando. Tutte le chitarre di quel brano le abbiamo scritte e suonate Federico ed io, non so nemmeno bene chi suonasse cosa, in una serie di sessioni di registrazione in cui pian piano aggiungevamo pezzi, nel corso di mesi. Sono certo che l’assolo e la slide guitar che si sentono alla fine li ho suonati mesi dopo rispetto alle prime take, con una ES 125-T degli anni 60, che sembrava essere fatta apposta per quel finale.

C’è qualcosa nella lavorazione del disco che vi ha sorpreso (magari qualcosa di inaspettato) e ora, ripensandoci o risentendola, vi complimentate con voi stessi per questa intuizione?
Francesco: Beh, proprio il fatto di essere stati impulsivi, scegliendo di registrare “Rise” e “Loosen Up” quando ancora erano poco più che abbozzate. In genere registravamo a brani già consolidati. Se non l’avessimo fatto, il nostro nuovo album “Rise” oggi non avrebbe due dei brani più importanti (e forse non si chiamerebbe nemmeno “Rise”).

Non sia mai, ma se aveste avuto l’ingrato compito di buttare dalla torre, nel famoso gioco, una band tra Oasis e Stone Roses chi avreste sacrificato?
Francesco: Questa è difficile. Provo a cavarmela così: probabilmente quando a dodici anni mi sono appassionato ad un certo tipo di musica, e credo di parlare anche a nome di Ale visto che siamo cresciuti insieme e ricordo bene quegli anni lì, ho iniziato con gli Oasis. Quindi, per una mera questione affettiva, non me la sento di buttare giù dalla torre i fratelli Gallagher. Butto giù gli Stone Roses, confidando in una loro risurrezione.

Bello sapere della vostra collaborazione con la Shore Dive, etichetta di Brighton. Come siete entrati in contatto?
Federico: Ancora una volta, ringraziamo Monica e la sua A Giant Leap per essere entrati in contatto con la Shore Dive. Speriamo la nostra collaborazione permetta di portare il nostro ultimo lavoro alle orecchie di chi lo potrà apprezzare e che magari sia l’occasione giusta per tornare a suonare in UK.

Grazie ancora per la vostra disponibilità. Ultima domanda forse scontata, ma d’obbligo, essendo agli inizi del 2023…cosa vi aspettate da questo nuovo anno ragazzi?
Grazie a te. Per quanto riguarda il 2023, ci aspettiamo di rimanere nel nostro loop: fare uscire il nostro nuova album “Rise”, portarlo dal vivo il più possibile, in Italia ed all’estero, perché crediamo meriti di essere portato alle orecchie di quanta più gente possibile…e poi al lavoro sul prossimo disco.