Non sappiamo nulla di noi stessi, siamo avvolti nel mistero, ci lasciamo influenzare e guidare da istinti interiori e da percezioni esterne, che, nel loro assieme, definiscono i nostri comportamenti, i nostri pensieri, i nostri sentimenti e soprattutto i nostri rapporti con il mondo esterno.
Rapporti che sono caratterizzati dai nostri limiti fisici, temporali e conoscitivi, in un fragile equilibrio tra elementi coscienti ed elementi incoscienti, tentando, spesso, attraverso vantaggiosi patti con il diavolo, di ottenere quel mix di potere, successo, ricchezza, fama e bellezza, che la società neo-liberista moderna indica come l’unica strada possibile per sentirsi felici, completi, realizzati ed appagati.
Ma invece sotto, sotto si tratta solamente di un modo per vincolarci a regole, a divieti, ad assiomi, a schemi mentali che non fanno altro che renderci tutti più nevrotici, più tossici, più arrabbiati, più ostili, predisposti al peggio, pur di prendere ciò che hanno gli altri e che pensiamo possa farci stare meglio o aiutarci nel nostro affannoso percorso di affermazione esclusivamente materiale ed individualista.
E così non esitiamo ad attaccare, a sputare veleno virtuale, a colpevolizzare, a fare a pezzi, a sfogare il nostro odio, per poi lanciarci, come dei poveri pazzi, sui loro resti mortali, sul loro lascito, sul loro cuore, pensando che, in questo modo, arriveremo ad impadronirci di quello che era il loro potere materiale e spirituale.
Ma la nostra è solamente brama di possesso, siamo lontani anni luce dalla purezza di quelle tribù dell’Africa Occidentale alle quali fa riferimento il titolo di questo nuovo lavoro degli Stormo, un disco nel quale le loro sonorità noise-rock e post-hardcore si intrecciano con le crude e macabre pratiche funerarie del popolo Junkun, in particolare con il rito che impone ai loro capi di consumare il cuore dei leader defunti.
Da ciò si genera un tribalismo metallico e sperimentale che travolge, con i suoi riff frenetici, le sue ritmiche incisive e le sue nostalgiche divagazioni grunge, i modelli globalizzati ai quali si ispirano, invece, le nostre comode, frustrate e servili esistenze, così che, una volta liberati dalle forme puramente estetiche, dagli ipocriti principi del politicamente corretto e da tutte le teorie sociali proposte da esperti e opinionisti televisivi, potremo renderci conto di quanto le nostre vite facciano riferimento ad un background morboso; un background che è ancora visceralmente caotico – come se vivessimo nell’Africa profonda di millenni or sono – ma che ha perduto, però, la verità dei fatti, il senso di giustizia, senza più alcun legame con il proprio passato e nessun valore collettivo da difendere ed affidare alle nuove generazioni, proiettandolo in un futuro che crediamo debba essere migliore per tutti, anche perché noi, purtroppo, non abbiamo più un futuro.
Si tratta, in fondo, del medesimo background che abbiamo assaporato, musicalmente, in passato, ogni qual volta ci siamo perduti nella dimensione sonica narrata da album come “Superfuzz Bigmuff”, “Bleach” o “Damaged” e che ora viene attualizzata, rinvigorita, svelata e sviscerata dalla band italiana, in un alternarsi fluido, energico e talvolta anche brutale di passaggi più lenti e riflessivi ed altri, invece, che assumono l’impatto di deflagrazioni rumorose ed industriali, di abissi profondi, di ombre voraci, di attacchi di panico e claustrofobia, il cui obiettivo è permetterci di sbarazzarci, finalmente, della nostra essenza più torbida ed inquinata e permettere alla nostra sensibilità di recuperare l’antico legame con la Terra, con la natura selvaggia, con la propria tribù, con quel ciclo di morte e di rinascita che, in fondo, è insito in ciascuna creatura vivente, anche se la nostra attuale società super-tecnologica ci fa pensare che possiamo essere eterni e vivere, di conseguenza, in un presente infinito e perfetto, mai bugia fu più grande e più dannosa.