Per capire bene “Viva Hate” dobbiamo riavvolgere il nastro del tempo e tornare indietro a un po’ di anni fa. I fans degli Smiths erano ancora sotto choc per lo scioglimento della band, che si era attorcigliata su se stessa nell’orchestrale finale “Strangeways, Here We Come” e non sapevano bene cosa aspettarsi dopo l’annuncio del Moz di tentare la via solista.
L’artista, dopo una pausa di riflessione, si era infatti rinchiuso nei famosi Wool Hall Studios di Bath nell’inverno del 1987 per registrare il disco, assieme al produttore Stephen Street ed al chitarrista Vini Reilly ex-Durutti Column, lasciando dietro di se un alone di mistero su quello che sarebbe stato il sound dell’album.
Fin dall’incipit, “Alsatian Cousin”, tutti i fans me compreso hanno comunque potuto tirare un bel sospiro di sollievo: una bella texture di chitarre distorte su una batteria cadenzata, che sapeva quasi di “The Queen Is Dead”: ecco che Morrissey tracciava perfettamente la linea della sua carriera solista, non di rottura, ma di prosecuzione come se nulla fosse accaduto. Anche il talento musicale che tutti attribuivano a Johnny Marr sembra proseguire senza troppi scossoni e trovare nuova linfa con lo “Smiths-solo”.
La vocazione dell’album era comunque quella di smussare un po’ gli angoli e virare verso brani più orecchiabili, da canticchiare in metropolitana: ne è un bell’esempio “Everyday Is Like Sunday”, una ballata post-atomica dove il Moz estrae dal cassetto la sua vena cinica e decadente.
Trudging slowly over wet sand
Back to the bench where your clothes were stolen
This is the coastal town
That they forgot to close down
Armageddon – come Armageddon!
Come, Armageddon! Come!
Morrissey è un maestro quando si tratta di adagiare le sue parole taglienti come lame su texture di suoni non convenzionali: ascoltate “Angel Angel Down We Go Together”, dove una lirica dalle tendenze suicide viene appoggiata su di un lenzuolo fatto di archi. Sulla strofa finale “I Love You More Than Life” difficile non avere gli occhi umidi.
Segue uno struggente addio ad una casa di rimpianti, situata a Modlin Street in Manchester. Una ballata toccante e frammentata, con la voce lamentosa di Morrissey a descrivere una scena di infelicità urbana nel lontano 1972.
Questo era anche l’ultimo brano del lato A del vinile, il cui lato B cominciava davvero col botto: “Suedehead” è forse il miglior brano dell’album (e forse dell’intera produzione dell’artista da solista). Una testa rasata, tipo skinheads, vellutata al tatto: quella di questo compagno che non si rassegna ad essere stato scaricato e torna sempre a cercarlo.
Why do you come here
When you know it makes things hard for me?
When you know, oh
Why do you come?
Why do you telephone? (Hmm…)
And why send me silly notes?
I’m so sorry
I’m so sorry
Ancora la decadenza, una relazione finita, quella sana malinconia perpetua dell’opera dell’artista mancuniano, che ti lascia con le lacrime agli occhi ma il sorriso sulle labbra.
La seconda facciata del vinile cede un po’ ma lascia un bel suggello finale con “Margaret On The Guillotine”, un brano dedicato alla Tatcher che causò non pochi problemi a Morrissey, con tanto di Scotland Yard a perquisirgli casa per vedere dove avesse messo la ghigliottina che si sente sul finale del brano (e dell’ellepì).
Il sound di questo album, ascoltato nel 2018, risulta abbastanza antiquato. Ma le emozioni che il disco riesce ancora a sprigionare dopo più di 3 decenni quelle no, sono attualissime, anzi acquistano ulteriore corpo, come un buon vino rosso maturato in botti di rovere antico.
Data di pubblicazione: 14 marzo 1988
Tracce: 10
Lunghezza: 42:16
Etichetta: His Master’s Voice
Produttori: Stephen Street
1. Alsatian Cousin
2. Little Man, What Now?
3. Everyday Is Like Sunday
4. Bengali in Platforms
5. Angel, Angel Down We Go Together
6. Late Night, Maudlin Street
7. Suedehead
8. Break Up the Family
9. The Ordinary Boys
10. I Don’t Mind If You Forget Me
11. Dial-a-Clichè
12. Margaret on the Guillotine