Se ti piace “Six“, il secondo album dei Mansun, molto probabilmente non ti piace così come succede con centinaia di altri dischi, ma è uno dei più importanti della tua vita, uno che ti ha segnato, che ha dato forma al tuo gusto musicale, che hai ascoltato un’infinità di volte e hai vissuto con particolare intensità. Questo, appunto, succede se ti piace, perché in realtà “Six” non è un lavoro che incontra i gusti di tutti i palati, e anche tra gli stessi fan della band, c’è chi gli preferisce di gran lunga il debutto “Attack Of The Grey Lantern“, quello sì adorato incondizionatamente da ogni seguace del quartetto di Chester.
La conseguenza di questo stato di cose è che quando Paul Draper ha annunciato che avrebbe portato il disco on the road, ha organizzato solo otto date, in posti abbastanza piccoli, e solamente la metà di esse è andata sold out. Il rovescio della medaglia, però, è che chi ha deciso di esserci, ci ha messo tutto il proprio cuore e tutta l’energia possibile per far sentire la presenza e il supporto al proprio idolo, che, negli ultimi mesi, non ha esattamente vissuto un periodo facile.
La data di Londra, in particolare, ha visto un pubblico estremamente partecipe e adorante, e che ha rappresentato uno dei fattori più importanti per la riuscita della serata. L’altro è consistito nella scelta, da parte di Paul e della sua band, di un approccio alla resa live del disco molto meno rigoroso rispetto a quello che era stato messo in atto per l’album precedente nel 2018, e in generale rispetto a ciò che si fa oggi quando viene suonato per intero un lavoro del passato, in favore di un’impostazione puramente da concerto, ovvero molto energica e capace di dare innanzitutto un forte impatto e tante belle vibrazioni, in barba alla pulizia formale.
La scelta si è rivelata azzeccatissima proprio per quanto dicevo all’inizio: “Six”, infatti, pur essendo strapieno di chicche a livello di produzione e interpretazione, è innanzitutto un disco che colpisce emotivamente, che sorprende e stordisce in primo luogo per le sensazioni che fa vivere all’ascoltatore, e, a distanza di 25 anni, ritrovarsi a vivere quelle stesse sensazioni fin dalle prime note ha rappresentato un’esperienza particolarmente emozionante, e chi se ne importa se gli intricatissimi arrangiamenti dell’album sono stati, in molti casi, riveduti e semplificati, perché quello che è arrivato dal palco a noi 45-50enni di oggi è stato paragonabile alle emozioni che ci avevano investito un quarto di secolo fa quando abbiamo ascoltato queste canzoni per la prima volta, e per tutte quelle successive.
Attenzione, comunque, perché quando parlo di semplificazione e di energia che sovrasta la pulizia formale, non si deve immaginare un concerto suonato in modo piatto e minimale. L’abilità tecnica dei quattro musicisti che accompagnavano Paul è stata comunque messa ampiamente alla prova, e tutti hanno superato brillantemente l’esame. Noi fan già sapevamo che Ben Sink è uno dei chitarristi più bravi in circolazione, e ciò che è stato in grado di fare coi numerosi e iconici giri di chitarra presenti nell’album ha ampiamente confermato la sua qualità; avevamo pochi dubbi anche sul bassista Beau Barnard, anche lui compagno di avventure di Paul già da anni, e sul tastierista P-Dub, fidatissimo sodale del nostro idolo soprattutto nel lavoro in studio, mentre c’era più curiosità per il batterista Julian Fenton, che aveva già suonato con i Mansun agli inizi della loro carriera, e che ha fatto esattamente quello che doveva fare, ovvero imporre un ritmo molto intenso con tempi che erano sia fuori dagli schemi che perfettamente funzionali alla riuscita dei brani. La Rete informa che, al momento, Julian suona con diverse band reggae, funk e jazz, e, da quello a cui abbiamo assistito l’altra sera, si sente.
In tutto questo, chi in realtà ci faceva stare più col fiato sospeso prima del concerto era proprio Paul, un po’ perché sappiamo che, come detto, il suo momento personale è un po’ delicato, e un po’ perché, per le date precedenti, si era levata più di una voce che parlava di un leader provato, la cui stanchezza fisica e mentale si vedeva tutta. Ora, non sarò io a dire che invece era fresco come una rosa, perché non lo era, ed è vero che è stato un peccato vederlo immobile sul palco con la chitarra in mano ma senza quasi mai suonarla e con gli occhi fissi su un tablet per leggere i testi, però intanto, dal punto di vista vocale, se l’è cavata bene, a parte un paio di errori che certamente non hanno avuto alcuna importanza nell’economia della serata (“Anti Everything” l’ha presa in modo platealmente sbagliato e su “Cancer” ha perso un giro creando un po’ di imbarazzo) e, soprattutto, ha saputo creare un forte legame col pubblico, che era già voglioso di suo di adorarlo, ma che lui ha saputo trascinare splendidamente, senza gesti particolari, ma semplicemente facendo sentire a tutti il proprio apprezzamento per l’empatia che provavamo nei suoi confronti.
Fondamentale nell’economia del concerto è stata la prima canzone, quella che, come sappiamo, dà il titolo al disco, e che è stata eseguita in modo particolarmente efficace. Trovarsi di fronte a un’interpretazione così fantastica già in apertura, e cantare “life, it’s a compromise, anyway” col massimo della voce e all’unisono con ogni altra singola persona presente, ha rappresentato un’emozione indescrivibile, che ha subito messo la serata sul livello più alto possibile, e davvero poi sarebbe potuta succedere qualunque cosa, che tanto eravamo già tutti contenti di esserci solo così, anche io che avevo preso un aereo la mattina stessa per esserci.
Comunque, anche tutte le altre canzoni sono venute molto bene, al netto di quei due errori del leader che, davvero, non hanno intaccato per nulla né la qualità complessiva della performance e nemmeno il suo impatto emotivo su noi fan. Dopo un’ora e un quarto di meraviglia e entusiasmo a getto continuo, rispecchiati dalle chiacchiere post concerto, possiamo serenamente avviarci verso casa, o verso un pub per alcuni drink defatiganti, con la gioia nel cuore. Purtroppo Paul non si è presentato al banchetto del merch a fare autografi come aveva promesso, e come aveva fatto nelle date precedenti, ma, anche qui, non importa, perché il concerto è stato talmente perfetto che nulla ci può rovinare una serata davvero magica.
PS: non ho parlato delle sei (numero che evidentemente ricorre) canzoni suonate in apertura e prese del repertorio solista di Paul: sono state anche quelle ben eseguite e hanno rappresentato un bel’antipasto prima del motivo per cui eravamo tutti lì. Non me ne vorrà il mio adorato, ma se la serata è stata così speciale, il merito è delle canzoni di 25 anni fa, e non di quelle, comunque bellissime, attuali.