Credit: Brennan Schnell from Canada, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Se avesse potuto, Roger Waters avrebbe convertito in un’istante tutti i presenti alla sua idea di democrazia non-democratica. Per poco non l’ha fatto, ma in compenso ci ha trasportato per oltre 50 anni attraverso i brani di una delle band più rivoluzionarie della storia del rock: i Pink Floyd.

Non è un personaggio facile. Il co-fondatore della band psycho-prog-rock inglese è oramai invecchiato e si sa, più si invecchia e più si diventa rincoglioniti. Non a tutti succede, ma a lui in particolare qualche valvola del cervello è saltata: in poche parole, col cazzo che lo fermi.

E non lo fermi neanche quando si mette in testa di portare in giro per il mondo il suo primo tour d’addio, dal titolo “This is not a Drill”, che ripercorre oltre 50 anni di carriera toccando non solo i grandi successi della band, ma anche i suoi da solista. Il tutto in un’arena sold-out, con un palco a 360 gradi a forma di croce, scenografie apocalittiche, luci dal futuro e tanta politica.

Quando si va a vedere un suo concerto o segui le sue regole o niente: è proprio questo che dice all’inizio, con un messaggio pre-registrato, al suo pubblico ovvero niente telefoni, ma soprattutto se la gente è venuta a sentire solo i Pink Floyd e allo stesso tempo però non sopporta le sue idee politiche, bhe allora può andarsene direttamente a fare in culo. Simpatico no?

Il fatto è che puoi essere contrario a molte delle sue visioni (la campagna contro Israele e gli Stati Uniti d’America o quella per liberare Assange) o semplicemente trovarle contraddittorie l’una alle altre ma quando ti ritrovi davanti al suo show tutto si annulla e, come vuole lui, se ne va a fanculo. Perché in un modo o nell’altro, Waters sa far passare un messaggio, il suo: condannare i cattivi, gli assassini, gli stupratori, i razzisti, i potenti e salvare i buoni, ovvero coloro che sopravvivono a stento in un mondo dai poteri forti che vuole ingannarli. Sa tutto un po’ di Orwell, e lui è il primo ad ammetterlo. Alcune delle sue teorie complottistiche fanno ridere, soprattutto se ripetute un po’ all’infinito.

Ma si va non per le sue idee, ma per la sua musica. E diamine che musica: solo con l’attacco iniziale di “Comfortably Numb” entri in uno stato trascendentale d’estasi che per ben quasi tre ore non finisce. Il tutto viene trascinato per alti, altissimi e ancora più alti spazi al solo sentire “Brain Damage” e “Eclipse” (con un gioco di luci a ricreare il triangolo di QUELL’ALBUM) e ancora “Another Brick in The Wall” o pezzi più rari come per esempio “Have a Cigar” e “Two Suns in The Sunset” (qua come base narrativa per dichiarare la sua posizione contro le armi nucleari, anticipato dal ticchettio del Doomsday Clock).

Momenti ancora più alti li ho ritrovati grazie alla sua band, un’ensemble di musicisti e coriste d’alto livello che si sono mescolate perfettamente all’epopea contro i nostri tempi di Waters. Un’esempio? Jonathan Wilson, il chitarrista nonché anche voce, che canta “Money” e “Us And Them” per poi aggiungersi all’intermezzo mozzafiato di “Any Colour You Like”.

Non viene annullato il passato dell’artista: il legame è ancora forte con i componenti vivi (e quelli morti). In particolare quello con Syd Barrett, a cui dedica un bellissimo momento strappalacrime per “Wish You Where Here” dove sopra di lui, mentre canta e si emoziona, passano immagini e testi relativi al loro rapporto. Un rapporto speciale, fraterno.

Se avesse voluto Roger Waters avrebbe convertito in un’istante tutti i presenti alla sua idea di democrazia non-democratica. Fanculo il governo, fanculo i poteri forti, fanculo la falsa informazione, fanculo i ricchi. Per quasi tre ore ci ha trasportato indietro e avanti, in un continuum spazio-temporale da perdere la testa. E il messaggio che ci ha voluto lasciare è molto semplice: come disse un tempo al suo compagno Barrett, This Is Not A Drill, e quindi dobbiamo farci trovare preparati al peggio. Magari con un po’ della musica senza tempo dei Pink Floyd.