Credit: Alexander Goossens

Nel nord Europa si sono già conquistati un gran numero di fan, ma anche dalle nostre parti si stanno facendo conoscere. Sono gli Haunted Youth, una giovane band belga che ha fatto il suo debutto sul finire del 2022 con un album decisamente convincente intitolato “Dawn Of The Freak”. Dream pop e shoegaze i due elementi alla base di un disco dai toni leggeri, sognanti e malinconici, pieno zeppo di melodie suggestive e ritornelli orecchiabili. Abbiamo avuto la possibilità di fare quattro chiacchiere con Joachim Liebens, frontman e titolare unico del progetto, pochi giorni prima del loro arrivo in Italia per una data in programma l’8 aprile al circolo Arci Bellezza di Milano.

Ciao, prima di tutto congratulazioni per il vostro meraviglioso tour europeo. Vi aspetta un anno pieno di concerti! Come vi siete preparati per questo evento così importante? Vi sentite più emozionati o nervosi?
Il nervosismo non lo sentiamo quasi mai a dir la verità, perché al momento è tutto così eccitante! In effetti, spesso non mi rendo neanche conto di quello che stiamo per fare, perché ci stanno succedendo così tante cose che è difficile tenere il passo.

“Dawn Of The Freak”, il vostro primo album, sta raccogliendo più di qualche attenzione. Personalmente l’ho trovato molto interessante, soprattutto per quanto riguarda produzione e arrangiamenti. Sono affascinato dalla scelta dei suoni per le canzoni… dagli intrecci suggestivi tra chitarre elettriche e sintetizzatori. Puoi dirci qualcosa su come avete lavorato durante le sessioni di registrazione?
Ho svolto un lavoro molto ampio sulle mie canzoni, provando e riprovando molteplici soluzioni. A volte partivo con una linea di basso, poi facevo una demo con la batteria, poi magari dimenticavo tutto e registravo il pezzo utilizzando solo una chitarra acustica. Alla fine, cazzeggiando, le idee si riunivano nella mia testa. Oppure erano già nella mia testa e dovevo solo capire come svilupparle, aggiungendo strati di chitarre e cose del genere.

Le influenze shoegaze e dream pop sono evidenti nel vostro album. Si percepisce in maniera chiara il desiderio di sfruttare al meglio i pedali per gli effetti di chitarra al fine di creare atmosfere sempre diverse. Date molta importanza a questi aspetti? Sei un appassionato di pedali – o degli effetti sonori in generale, considerando il peso delle tastiere in queste canzoni – oppure hanno un’importanza secondaria per te?
Mi limito a cercare suoni in grado di farmi sentire in una determinata maniera. Che si tratti di usare molti effetti o di registrare utilizzando solo la voce e un ritmo di batteria, poco importa. Gli strumenti che fanno parte della mia collezione sono in qualche modo legati ai miei ascolti. Magari sento un disco e penso: «Che sound pazzesco!», e allora mi trasformo in un totale nerd per cercarli e provare a recuperare gli stessi strumenti usati per la registrazione, utilizzandoli però in una chiave personale. Per ricreare gli stessi suoni a modo mio, utilizzandoli ogniqualvolta ce ne sia bisogno per migliorare le canzoni.

Ho l’impressione che questo album sia pieno di contrasti tra il buio e la luce. Un mix tra fragilità e malinconia. I suoni sono eterei, le melodie spesso sono molto dolci ma i testi sono piuttosto oscuri. Voglio dire, un titolo come “I feel like shit and I wanna die” (“Mi sento di merda e voglio morire” in italiano) è più che esplicito in tal senso! Eppure, in termini di suono, è una delle tracce più delicate dell’intero disco. Questo gioco di contrasti è voluto oppure no?
Penso che la vita in generale sia piena di contrasti. Quindi per quale motivo questo aspetto non dovrebbe riflettersi nella musica che facciamo?

Come e quando sono nate le dieci canzoni dell’album? Puoi raccontarci qualcosa del lavoro dietro “Dawn Of The Freak”?
È tutto iniziato con “Fist in my pocket”, una canzone diversa da qualsiasi altra io abbia mai scritto o sperimentato. Per me è un brano estremamente personale e lo considero molto bello. Al primo ascolto ci ho avvertito la mia stessa essenza, nel senso più profondo del termine. Piano piano sono arrivate le altre canzoni, una dopo l’altra, ognuna di loro nata e cresciuta in maniera diversa. Ho dovuto fare molte demo prima di arrivare alle versioni finali dei pezzi. Una buona parte del disco è stata registrata nella mia camera da letto.

Proprio “Fist in my pocket” mi ha particolarmente colpito. Una canzone folk acustica che si distanzia parecchio dallo stile del resto del lavoro. Notevole anche “House arrest”, di cui trovo interessanti due precisi aspetti: le note della tastiera, semplici e avvolgenti, e la linea di basso melodica che mi ha fatto pensare allo stile di Peter Hook, ex Joy Division e New Order. Puoi dirci qualcosa di più su questi due pezzi?
Per quanto riguarda “Fist in my pocket”: una volta, al liceo, sono stato sospeso per aver fatto del male a un compagno di scuola che mi bullizzava. A casa ne ho parlato con mia nonna che mi ha detto: «Ricorda: la prossima volta che vuoi fare a botte con qualcuno, stringi il pugno in tasca e sorridi». Per me è stata una cosa difficile da accettare ma, scrivendo la canzone, mi sono trovato costretto a cogliere il vero significato del suo consiglio. Il brano racchiude davvero il dolore derivato dalla scoperta. La sensazione di essere impotente e incompreso. Il senso di colpa che provavo nei confronti delle persone a cui avevo fatto del male solo perché mi sentivo estremamente solo. In qualche modo vorrei aiutare tutti coloro che si autodistruggono a causa di un dolore del genere: magari, ascoltando questo pezzo, potrebbero sentirsi un po’ meglio. In merito a “House arrest”…beh, i Joy Division e il suono del basso di Peter Hook mi hanno sempre ispirato moltissimo. Sono tra gli ascolti che hanno segnato la mia crescita e, ovviamente, hanno avuto un impatto sul mio modo di suonare. Penso a come i synth riescano a sostituire il basso quando questo si sposta su note più acute, creando un sound pieno che suggerisce una sensazione di sospensione, di galleggiamento. Eravamo nel pieno del lockdown per il COVID e mi sentivo così depresso per il fatto di non avere un posto tutto per me dove stare, di essere costretto a stare a casa con mio padre… con lui non vado molto d’accordo, lo tollero giusto per qualche cena assieme. C’è una specie di spaccatura che ci impedisce di comunicare serenamente, sai? Quindi, proprio per descrivere questa sensazione, ho scritto il verso chiave di “House arrest”: Take me AWAAAAYYYYYY (ride). Tra le altre cose ho scritto “Shadows” nella stessa settimana. È frutto delle stesse sensazioni.

C’è molta musica pop in questo disco. Ascolto “Coming home” e la trovo incredibilmente orecchiabile. Una canzone radio-friendly, per così dire. Pensi che la band possa orientarsi verso un pop rock più tradizionale in futuro? Oppure il legame con shoegaze e atmosfere sognanti è troppo forte?
Credo di essere sempre stato un fan delle canzoni dalle strutture semplici. Sono facili da ascoltare. Il tipo di suono che hanno, tuttavia, è frutto di esigenze personali, non ha legami con la volontà di proporre un brano in linea con i canoni radiofonici. L’elemento di prevedibilità, secondo me, aiuta le persone a entrare più facilmente nell’esperienza musicale. È utile anche per me come autore. Mi sono sempre piaciute le hit: raramente apprezzo le canzoni strane.

Puoi dirci qualcosa della copertina del disco? Nella fotografia c’è un bambino ma, nonostante questo aspetto tenero e infantile, la prima volta che l’ho vista ho pensato di avere tra le mani un album black metal! Il logo stesso della band è molto metal!
Beh, quando andavo al liceo ascoltavo quasi esclusivamente il black metal più grezzo, quello prodotto tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Questo genere musicale ha avuto un grande impatto sulla mia crescita. Il black metal è il motivo per cui non mi sono suicidato in giovane età. Quindi sì, sia il logo che l’artwork sono chiaramente ispirati all’immaginario black metal. La foto l’ho trovata nella soffitta della casa di mia madre. È un’immagine di mio fratello di quando eravamo bambini. È stata scattata durante una vacanza in una fattoria nella Foresta Nera, in Germania. All’epoca mi sentivo puro: la foto rappresenta sia l’immacolatezza di un bambino innocente, sia il dramma di trovarsi da soli in un paesaggio oscuro e vasto. Con quell’auto minacciosa che si vede sullo sfondo, ho pensato che la foto fosse perfetta come copertina dell’album. Si adatta bene allo stile del lavoro.

Avete già un’idea di quello che farete alla fine di questo lungo tour europeo? Visiterete gli altri continenti oppure inizierete a lavorare su un nuovo disco?
Sicuramente andrò a suonare in altri paesi, ma ho intenzione di approfittare di ogni buona occasione per passare un po’ di tempo in studio per scrivere e registrare nuovo materiale!