Un paio d’anni sono passati dal loro debutto “The Seed, the Vessel, the Roots and All” e i New Pagans ci riprovano. Non era di certo facile confermare l’ottimo esordio ma con questo nuovo album la band di Belfast ci fa accomodare, ci serve dell’ottima birra irlandese e ci delizia con queste nuove dieci canzoni che, permetteteci l’audacia, possiamo definire dieci piccoli gioielli.
Non posso nascondermi dietro a un dito. E accetto ogni singola critica sulla mia sfacciata parzialità (che ritengo ovviamente giustificata) ma ho amato “Making Circles of Our Own” sin dal primo ascolto. Quindi non fidatevi dell’otto in pagella che ho assegnato al disco ( “i 9 e i 10 si danno solo a Sgt. Pepper’s…” cit.), la troppa generosità nasconde sempre un interesse nascosto penseranno i più maliziosi. Quindi non vi resta che spendere quaranta minuti della vostra intensissima giornata e controllare di persona.
Lyndsey McDougall e i suoi compagni di viaggio hanno trovato un equilibrio tra testi e musica, tra poesia e emozioni. Siamo in pieno territorio rock, chiamiamolo post punk, rock alternativo, che differenza fa? Quello che sorprende è l’abilità che hanno questi cinque artisti nel creare canzoni splendide e avare: non amano darti tutto subito, non sono di certo come quei chewing gum che dopo pochi secondi perdono repentinamente la loro dolcezza e provocano solo fatica e dolore alle mascelle.
Ascoltiamo “Karin Was Not A Rebel”, il brano dedicato all’interior designer Karin Bergöö Larsson. In poco più di quattro minuti questi eccentrici irlandesi ci mettono un intro, poi due chorus, un altro ponte a cui segue l’outro. E ogni passaggio potrebbe avere una vita propria, un corpo con più cuori. E’ proprio questa qualità che si respira per l’intero album.
La toccante “A Process of Becoming” raggiunge punte di drammaticità che ne fanno, forse, il brano più elegante dell’album, classifica questa molto relativa, ogni brano nasconde sorprese che colpiscono nei vari ascolti successivi. La successiva “Fresh Young Overlook” ha invece un cambio di ritmo che accompagna allo spendido finale.
Se “There We Are John”, “Bigger Homes” e “Better People” sono i momenti più taglienti e potenti, gli archi e la voce del chitarrista Cahir O’Doherty fanno di “The State of My Love’s Desires” l’episodio più dolce e introverso della loro completa discografia. L’originale linea di basso di Claire Miskimmin introduce “Hear Me, You Were Always Good” dove la band accenna pure riff reggae, intrecci tra le due chitarre (ricordiamo pure l’altro chitarrista Allan McGreevy e la precisa e potente batteria di Conor McAuley) concludendo in un finale in crescendo. “Find Fault Witn Me” e “Comparable Reflection” contengono chorus che si fanno attendere come belle ragazze al ballo di fine anno ma che provocano un sospiro e la piena consapevolezza di un’attesa meritata.
Per chi come Lyndsey ha nel cuore artisti come Sonic Youth, PJ Harvey e i Pixies, questo è l’album da ascoltare. Non lasciatelo alla periferia dei vostri interessi musicali per nessuna ragione al mondo. Per tutti gli altri, magari i più giovani tra i nostri lettori, vale lo stesso consiglio: ascoltatelo, nulla più.