Se c’è una cosa che tutti hanno capito è che quando Ari Aster si fa una bella sega e viene su se stesso, si sente così onnipotente da girare un film lungo tre ore. Questo è lo (sfortunato) caso di “Beau Ha Paura”.
Nel palinsesto cinematografico del 2023, il ritorno del cineasta Ari Aster era ben atteso. Finalmente ci avrebbe proposto un bello e angosciante lungometraggio, continuando il percorso iniziato con “Hereditary” e “Midsommar”. Tutto questo però è stato messo in discussione poco dopo l’uscita del film: ma che cazzo stiamo guardando?
Quando fai un film lungo tre ore le opzioni sono due: o hai troppo da dire o non sai cosa buttare dentro e la tua bella sega che ti ha reso così onnipotente ti porta ad un montato lunghissimo. “Beau Ha Paura” è tutti e due i casi.
Beau (Joaquin Phoenix) è un adulto che ne ha passate tante, anche troppe: vive in un quartiere di una città non identificata pericoloso, dove l’immaginazione scaturita dall’angoscia di vivere lo porta ad immaginare situazioni pericolosissime. Tra una seduta dallo psicanalista e l’altra, il nostro protagonista ha organizzato il ritorno a casa in visita alla madre. Proprio il giorno prima della partenza, però, una serie di sfortunati eventi lo portano a dormire più del solito alzandosi quindi poche ore prima il suo volo. Cercando di recuperare il tempo perso, esce velocemente di casa con chiavi e valigia ma si dimentica una cosa in bagno e quindi, lasciando le chiavi nella serratura, torna dentro e quando ritorna all’ingresso le chiavi e la valigia sono sparite (l’episodio è ripreso da un suo cortometraggio del 2011 dal titolo “Beau”). Da questo momento, Beau cerca disperatamente di tornare a casa in un susseguirsi di episodi poco terrificanti (siamo stati abituati a qualcosa di più) e onirici che lo porteranno ad avere molta paura. Un viaggio dentro e fuori la sua testa, tra presente e passato, con uno sguardo troppo ottimistico al futuro.
L’impianto narrativo, inserito in una regia magistrale, è sicuramente il fattore più interessante di questo film: possiamo infatti considerare non un arco narrativo vero e proprio, ma più capitoli con la propria storia legati da un filo rosso quale il ritorno a casa dell’eroe e il rapporto malato con la madre (Patty Lupon). Ogni capitolo, quindi, vede al suo interno più sottocapitoli che sono alla fine il piccolo arco narrativo di competenza. Ogni parte è denominata da un fattore angosciante, secondo almeno l’idea originale del regista, e l’obiettivo sarebbe quello di realizzare un crescendo verso l’epilogo finale.
Il problema, però, sta proprio nella costruzione e nella gestione dello spazio e del tempo: Ari Aster gioca a fare l’onnipotente, a mettersi tra i grandi registi contemporanei, realizzando un prodotto pieno di metafore e simbolismo che a volte alza l’asticella ma tantissime altre l’abbassa. Ci sono alcuni momenti, quindi, che sono oggettivamente belli e ben realizzati e altri dove il tempo non sembra più andare avanti. Un gran mix di cose che ti fa uscire dal cinema solo stanco, per tutto quello che hai visto. La baracca viene tenuta in piedi da Phoenix e dalla sua grandiosa interpretazione, anche nei momenti totalmente più cringe.
La bravura di Aster è sempre stata quella dell’angoscia lenta e atroce: una grande costruzione dell’ansia, in tempi sicuramente più lunghi dell’horror o thriller classico, che ti porta a stare così male fino ad esplodere e rimanere a bocca aperta alla fine. Qui l’angoscia c’è e non c’è, vuole essere velata certe volte e altre vuole avere la sua presenza in primo piano senza però farti star male. Una storia così intricata ha tantissimi spunti su cui costruire il senso di terrore mentale, ma non viene sfruttata e quindi sembra solo un grande atto masturbatorio per far vedere che sì, anche lui può fare qualcosa di grande.
“Beau Ha Paura” e non è l’unico. Ad aver paura sono anche gli spettatori che intimoriti dalla lunghezza di questa epopea si siedono in sala, guardano, e ne escono così stanchi e così ancora di più impauriti da non ricordare più dove la macchina è stata parcheggiata.