Come un razzo che va nello spazio più profondo, come David Bowie e la sua “Space Oddity”, anche Lucio Corsi s’innalza finalmente nel grande olimpo dei cantautori italiani.

Giacchetta e spalline pronunciate, faccia bianca e rossetto con licenza da uccidere. Lucio Corsi sale sul palco dell’Alcatraz di Milano, seguito da altri sei musicisti, come il David Bowie degli anni ’80 ma con l’anima dei cantautori italiani di altri tempi.

Come racconta le storie lui, vere o di finzione, nessuno oggigiorno lo fa. E ci riesce rimanendo modesto anche nel suo atteggiamento di ragazzo che ha imparato, deve ancora continuare a farlo, e sicuramente ci riuscirà. Lucio incarna perfettamente il nostro passato cantautoriale, con quel pizzico di follia giovanile che lo porta ad essere originale.

Ed originale è proprio il suo concerto, inaspettato su tutti i fronti. In primis la durata di due ore ed un quarto, a cui oramai non siamo abituati. Ma lui invece decide di andare di scaletta lunga, dice. E lo fa non solo riproducendo tutti e due gli album composti, “Cosa Faremo Da Grandi?” e “La Gente Che Sogna”, ma anche cover, medley, solo strumentali così cazzute da non crederci.

Come secondo fattore, e questo di grande importanza, la sua semplicità ed umiltà di fronte ad un club così prestigioso. Tutti sono lì per vederlo, tutti lo amano, e lui lo sa benissimo. Ma comunque se ne frega, si abbassa al nostro livello, intrattenendosi con noi a chiacchierare quasi o a raccontarci una storia prima ancora della storia musicata.

L’atmosfera, divisa in tre atti (ed un quarto), è proprio caratterizzata da una vena contemporanea (quella pesante delle chitarre elettriche) e da una oramai dimenticata cioè quella dei cantautori di una volta. Incarnando già nei suoi testi molti riferimenti al suo omonimo, a Guccini o a De André, dal vivo Lucio sà ancora di più narrare una storia. E lo fa con la semplicità di un ragazzo molto fortunato.

Lucio Corsi ci ha suonato, assieme alla sua “banda” come la chiama lui, due album e altrettante cover (Battisti in primis) e avrebbe continuato dopo due bis. Tra “Freccia Bianca” e “Trieste”, tra “Astronave Giradisco” e “Radio MayDay” con il suo fedele amico Tommaso Ottomano, siamo stati letteralmente catturati da una bravura che non si vedeva da anni.

Stregati da un artista poliedrico come lui, siamo stati sparati all’interno del mondo e dello spazio targato Lucio e per due ore (ed un quarto) non ho visto nient’altro che un grande e giovane cantautore che, prendendo tanto dal passato, ha saputo segnare il suo posto nella contemporaneità.