Continuano a fioccare buoni ed onesti lavori di band che nel campo dell’elettronica sopravvivono all’obsolescenza di genere, qui molto più severa e veloce che in altri campi, visto che dopo i recenti album di Leftfield e Orbital anche i cari The Orb si ripresentano più vivi e diretti che mai, dopo oltre 30 anni di onorata musica from the outer space.
Il buon Paterson ormai ultimo membro attivo del progetto ci riconquista con questi suoni circolari ed orbitali, ponendo nuovamente le basi per un’immersione dentro un mondo onirico e stellare, qui in “Prism” fortemente variegato, dove la nostra curiosità non deve cedere alla tentazione di trovare qualcosa di nuovo, ma si ferma ed ampiamente gode di musica che si rinnova, piavecole e spesso fresca che in alcuni momenti riesce pure a stimolare un trasporto, a connettere verso la dimensione di contatto col senso del viaggio verso l’ignoto.
Il prisma del (ex) collettivo inglese inizia infatti in modo solenne e dolente con la profonda “H.O.M.E.”, tipica intro con archi e piani synth con voce evocativa che poi si lancia in una house anni 90, per poi passare all’afro beat contaminato coi beats di “why can you be in two places at once, when you can’t be anywhere at all…where’s gary mix”; da qui l’album sterza in modo deciso e non totalmente comprensibile, verso sorprendenti territori reggae dub, forse eccessivi nella loro ripetizione, inframezzati dal pop quasi alla Pharrel Williams di “Tiger”.
Ma è nel trittico finale che si riprende quota e si entra nel dancefloor quasi trance di the “beginning of the end”, house semplice e conviviale ma godibilissima che si smorza con pretese di infinita lunghezza su un eterno splendido finale ambient di una profondità pazzesca, con questi tappeti di synth ancora una volta talmente densi da sfiorare la palpabilità; brano che precede l’altro pezzone “living in recycled times”, ossia la riproduzione 2023 di un perfetto drum’n’bass stile periodo d’oro “senzatempo” di Goldie, con il featuring alla voce di Rachel d’Arcy, con una produzione perfetta e serrata, che si trasforma ancora una volta nella parte finale di questi 10 minuti in uno spazio di voci, suoni galattici e intimi archi, come momento di stabilizzazione dopo l’estasi dell’effervescenza jungle.
Ma non finisce qui , perchè il meglio arriva alla fine, quando si torna a vagare fra gli intermundia della titletrack, per terminare e forse continuare il viaggio da dove si era iniziato, guarda a caso in “H.O.M.E,” non calcolando tutto quello che c’è stato in mezzo, ma dedicandosi alla meastria dell’arte dell’abbandono, che Paterson qui plasma alla perfezione, maturata nei decenni di attività, con magnifici pattern sintetici, certamente sentiti e risentiti (di cu poi tra l’altro The Orb non possono rivendicarne chissà che paternità), ma che sono ogni volta, nelle sue mani beninteso, lussureggianti ed immaginifici, capaci come si diceva di trasportare il senso dell’ascolto oltre la sua primaria dimensione, adando a scoprire ulteriori percezioni sensoriali: altri 10 minuti finali come corollario di un disco che ricuce i fili con tutta la discografia The Orb, che ci riconnette con l’essenza immutata della loro musica, verso visioni cinematiche interstellari, attraverso voci fuori campo, segnali alieni, di un prisma che vaga dentro lo spazio sconosciuto della nostra mente.