Se per Jarmusch la leva principale per trovare la personale strada alla visione del mondo è sempre stata la narrazione cinematografica, si può dire che la componente musicale ha camminato, costantemente ed in modo imprescindibile, in una linea parallela con questa esigenza espressiva, nel corso del tempo acquisendo una sua veste autonoma, diventando sempre più importante tanto da portare l’autore newyorkese a frequentare attivamente il music business, a sfornare album, a calcare i palchi.

Credit: Sara Driver

L’approccio è sempre stato molto basico, la pretesa non è certo solo quella di fare parte di una vera band, ma soprattutto di aggredire il potere evocativo del sound, in particolare quello che esce dalla chitarra, lo strumento rock per definizione, che per Jarmusch diventa un riflesso iconografico, un vero strumento da usare per disegnare influenze, per cercare delle note, dei suoni più che altro, capaci di suggerire l’enorme impatto immaginifico del suo universo percettivo.

In questo “Silver Haze” i bozzetti primordiali, letteralmente provenienti da casa Jarmusch, sono stati al solito condivisi con il fidato Carter Logan, l’altra metà del progetto SQURL, e sottoposti alla cura delle ancor più solide mani di Randall Dunn che colloca la produzione dentro i territori della Sacred Bones, esaltando col diffuso utilizzo di riverberi l’atmosfera densissima di questi 8 pezzi in un album stringato ma debordante, altamente lirico ed emozionante, che restituisce all’interno del suo breve minutaggio tutta la poetica del regista di “Paterson”, amplificandone la portata, come solo la musica può fare con la sua maggiore ed ineffabile immediatezza, l’elemento malinconico, struggente e desolante, così pieno del senso di splendida decadenza della vita, da commuovere per la capacità di esaltarne la vera essenza.

Queste note così dolenti, di chitarre distorte dal doom di riduzione di impronta Earth di Dylan Carlson, riempiono l’ascolto, simulano e accompagnano la nostra scoperta dell’ essenzialità dello scorrere delle nostre esistenze, lente, profonde e intense come la chitarra amplificata suggerisce in “Berlin 87”, in un ulteriore rimando percettivo al ricordo di un mondo intatto, precedente alla caduta delle ideologie, così in linea con l’apparente stato di imminente caduta nel baratro in cui ci troviamo oggi.

Da sempre l’elemento di ricerca del cinema underground di Jarmusch cerca di svelare l’unicità della vita più attaccata alla realtà evidenziandone la sua semplicità a volte così banale , così lontana dal nostro sentire occidentale europeo che quasi ci sorprendiamo di fronte a tanta genuinità, ma mentre nel cinema poi l’effetto di questa svelatura permette ed è funzionale ad una emersione della purezza dei sentimenti che accompagnano le vicende dei film, nella musica tutto questo pensiero diventa inevitabilmente non scritto e subliminale, come se la colonna sonora non avesse bisogno di immagini, ma fosse in grado di trasmettere lo stesso trasporto: in “Silver Haze” la musica copre ogni cosa come l’effetto di una foschia d’argento suggerito dall’astratta copertina, un’ allusione ad una possibile situazione funesta, una patina che modifica il senso del reale e che ci spinge a coglierne la vera dimensione che appunto si cela dietro il filtro fosco.

Il senso di “Silver Haze” sta tutto qui, l’eterno camminare su clivi pericolosi, a stretto contatto con la fortuna e col destino imminente, dove non c’è altro aspetto di cui dovremmo occuparci se non quello dello specchio della nostra fragilità semplice, che può trasformarsi velocemente in tragedia, come se ci muovessimo sempre sul filo del rasoio: bastano pochi secondi della chitarra di Marc Ribot per rendere viva tutto questa decadenza struggente in “Il Deserto Rosso”, un brano straordinario dal lirismo unico, con le corde che gemono, in un languidissimo lungo assolo che a tratti ricorda il Gilmour più ispirato, che commuove e lacera, che potrebbe farci sprofondare in una malinconia senza fine ma che poi i sussurri elfici della Gainsbourg in “John Ashbery Takes A Walk” risollevano, fino alla fine con la titletrack, splendida cavalcata quasi shoegaze , epica nella sua lenta ipnosi, così piena di rimandi così consolatoria dopo un viaggio tortuoso nel pieno del mistero.

Album raro e prezioso, qualcosa che si allontana dal valore della pura musica e che abbraccia la dimensione artistica complessiva dell’autore, come se fossimo all’ascolto di una soundtrack senza destinazione, che sveste, illumina e contempla la realtà del presente.