Credit: Alex Lake

I Porcupine Tree calcano il palco della Cavea con una certa puntualità poco romana, pochi minuti dopo le 21 e, come c’era da aspettarsi, è subito “Blackest Eyes”. Uno degli apici della loro carriera. Eppure, sarà la luce del sole che ancora campeggia, sarà l’immobilismo del pubblico seduto, per quanto entusiasta, sarà, io penso soprattutto, l’assenza sul palco del bassista Nate Navarro: la band suona frenata, incartata su sé stessa. C’è mestiere, evidente, ma non c’è fluidità e cuore. La bellissima “Blackest Eyes” delude e mi comincio a preoccupare su quello che sarà il resto del concerto.

A questo punto, Steven Wilson prende la situazione in mano. Saluta e dice subito che non sono abituati a suonare con un pubblico seduto. Non fa in tempo a terminare la frese che, noi del parterre, siamo tutti sotto il palco. Che poi, porca paletta, vorrei proprio parlare con chi ha concepito un concerto di musica metal con le seggioline. Si potevano vendere biglietti in piedi, venderne di più, abbassare un pochino l’esoso prezzo e fare tutti felici. Poco importa, ora che siamo accalcati sotto il palco, Steven affronta l’altro “elefante nella stanza”. Per chi non lo avesse letto prima sui social, spiega che Nate Navarro qualche giorno prima era dovuto rientrare a casa per una emergenza familiare e, pur di proseguire il tour, si è deciso giustamente di andare avanti con basi registrate di basso. Non è la stessa cosa, ovvio. Mi renderò poi conto il giorno dopo sui gruppi FB che, a occhio, meno della metà del pubblico ha capito quello che il povero frontman ha detto nella sua lingua natia e continuava a chiedersi dov’era il bassista. Ma tant’è: siamo in Italia, ui don spik inglish

Da quel momento, però, con la base registrata che lancia il funk di “Harridan”, le cose iniziano a cambiare. Gradualmente, la band acquista coesione e slancio e la Cavea vola con loro. “Of the New Day” viene fatta al top, quasi come se fosse necessario per la band rallentare il ritmo con una ballad per ricompattarsi. Lo show prosegue dunque con brani da “Closure/Continuation”, “Deadwing”, “In Absentia”, “Lightbulb Sun”. Sotto al palco, noi fan siamo scatenati. Noto una platea di un pò tutte le età, con parecchi millennials e parecchie donne, a riprova che Steven Wilson è riuscito a spezzare la maledizione del Prog come musica per boomers maschi. Accanto a me persino un minorenne con papà dotato di maglietta Kingcrimsoniana: il ragazzino sembra sapere le canzoni a memoria.

Credit: Giovanni Davoli

“The Sound of Muzak” è emozionante, con Gavin Harrison che, con i suoi stacchi e rullate, si mette sotto i riflettori e, alla fine della traccia, si gode l’apoteosi del pubblico che canta il suo nome. I brani dell’ultimo album convincono nella esecuzione dal vivo, forse anche più dell’originale. “Chimera’s Wreck” è lunga e avvolgente. “Herd Calling” è serrata ed energetica. Dopodiché Steven annuncia “Anesthetize” e il publico va fuori di testa alla sola idea, o almeno io ci vado. Peggio ancora durante l’impeccabile esecuzione. Adrenalina pura. E da lì in poi non ce n’è più per nessuno. Il basso, va detto, risulta in secondo piano nel mix, al punto che in certe tracce sembrava proprio non essere stato previsto. Le chitarre dominano il tappeto sonoro con la batteria che suona con loro, mentre Richard Barbieri esegue il suo compito di creare l’atmosfera.

C’è tempo per un bis: “Collapse the Light into Earth”, “Halo”, “Trains”. In totale, due ore scarse di show. Saremo in molti a notare come la scaletta delle altre date del tour prevede altre tre tracce, tra cui la capitale “Fear of a Blank Planet”. Quindi, in totale, almeno un’altra ventina di minuti di musica. La Vox Populi dà la colpa di questo taglio alla solita organizzazione romana. Sarà. Io vado a casa comunque felice. Un’altra grande band spuntata dalla mia lista “da vedere prima di morire”.