La magica cornice del festival di Sexto ‘Nplugged che si svolge nel magnifico piccolo borgo di Sesto al Reghena, ha visto nella serata del 9 Luglio il passaggio della luminosa presenza di Ben Howard, pluripremiato enfant prodige della scena indie folktronic internazionale, in una data unica in esclusiva per l’Italia.
In tour per presentare il suo nuovo disco “ls It?“, quinto lavoro da studio che vede la luce a due anni di distanza da “Collections From The Whiteout” di cui idealmente rappresenta un’evoluzione nella continua ricerca di sonorità sperimentali e con una corposa presenza elettronica, segna un momento di passaggio in cui si discosta ulteriormente dalle origini puramente folk di “Every Kindgom” dove si sentivano le marcate influenze di John Martyn e Nick Drake e che ha portato il cantautore inglese nel 2011 ad una folgorante ascesa sotto i riflettori.
“Is it?” rappresenta anche una rinascita ed un ritorno alla vita dopo due mini attacchi ischemici avvenuti poco prima della registrazione dell’album, esperienza che permea tutto il tessuto dei brani in esso contenuti.
Il compito di aprire la serata spetta a Mabe Fratti, violoncellista originaria del Guatemala e basata a Città del Messico, che con estrema grazia e la sua voce angelica incanta il pubblico con eleganti melodie cantate in spagnolo, che accompagnate da una chitarra elettrica creano un intreccio armonico estremamente originale. Durante la performance compaiono dei pavoni come special guest sulle mura della piazza e intonano a loro volta un canto che fondendosi con la voce di Mabe ha impreziosito l’atmosfera rendendola quasi onirica.
Nel cuore medievale del borgo, gremito di un migliaio di persone, si percepisce un crescendo di entusiasmo e si odono lingue ed accenti differenti, alcuni dei presenti sono infatti giunti da molto lontano, il che lascia percepire che l’aspettativa per la serata è molto elevata.
Come a ricreare un blackout alle 22 per un istante si spengono tutte le luci della piazza e dalle scale dell’antica Abbazia scendono i membri della band per posizionarsi uno ad uno sul palco e non appena compare Ben Howard il pubblico lo accoglie calorosamente con un tripudio di applausi, quello che si riserva agli eventi speciali da lungo attesi.
Non delude le aspettative Ben, apre il set imbracciando la sua Fender Jazzmaster bianca, con cui costruisce il ritmo incalzante di “Walking Backwards” dipingendo sin dal principio un nuovo paesaggio sonoro, su una base di beat e sample elettronici, mentre sullo sfondo vengono proiettate le immagini in technicolor dell’art work della cover del disco.
Some days I am walking backwards, truth to be told I don’t mind
le parole del testo suggeriscono che il percorso che si sta per compiere è fatto di nuove scoperte e di ritorni alla memoria del passato.
Al suo fianco troviamo una formazione consolidata di eccellenti musicisti che lo accompagnano abitualmente e che vede
Nat Wason alla seconda chitarra, Mickey Smith al basso, Kyle Keegan alla batteria e R.D.Thomas alle tastiere/synth.
Il concerto entra nel vivo con “Couldn’t Make It Up” che inizia con un synth che si ripete in loop ed esprime la domanda fondamentale che sta alla base del disco – If I give up, do I give up now? – per poi espandersi in un solido crescendo ritmico e aprirsi sul solare ritornello.
Cambio di chitarra, che si ripeterà quasi ad ogni brano per permettergli di eseguire i suoi ricercati alternate tuning, lo sfondo si tinge di rosso e si passa alla Martin acustica, che va a toccare dritti al cuore con le note basse dell’idilliaca “Days of Lantana”, uno dei brani di maggior impatto emotivo sempre tratto dal nuovo album, che coinvolge il pubblico come ad osservare la fotografia di un momento molto intimo e personale – But I don’t mind it, being in the darkness baby to be by your side I would walk the Nile twice- e con un lungo salto indietro nel tempo senza pause tra i due brani, quasi a collegarli con un filo invisibile, Ben esegue poi una variazione di “Everything”.
Segue “Crowhurst’s Meme” in cui è degno di nota un passaggio di altissimo livello quando le due chitarre incrociandosi per qualche secondo fanno riecheggiare nella mente il suono di Mark Knopfler e tocca poi alla delicata “Follies Fixture”.
-It’s nice to sing some songs about love – ma non solo d’amore parla Ben, lasciando sempre spazio aperto per contemplare i suoi brani nelle loro molteplici sfaccettature e in un momento di grande raccoglimento esegue da solo con chitarra acustica e voce calda ed intensa la malinconica melodia folk old English style di “Rookery”.
Le tematiche dei brani sono enfatizzate nel caleidoscopio delle immagini proiettate sullo sfondo che cambiano continuamente ed è sulle note di “In Dreams” e “Small Things” che il pubblico viene totalmente avvolto da una crescente onda sonora.
Introduce poi “Moonraker” descrivendola come i pensieri che si dipingono nella mente di una persona mentre resta bloccata scalando le montagne spagnole – Can you picture this? No big meaning- Sorride quasi a sottolineare che in realtà ogni brano contiene significati molto più profondi. Lento e profondo diventa anche il suo tono di voce ad accarezzare le percussioni e i beats della base, invitando gli interlocutori a rallentare e fermarsi un attimo per godere della vista dalla cima della montagna.
One old one new, ci tiene a farci sapere e si ritorna di nuovo negli album del passato dove a catalizzare completamene l’attenzione è “I Forget Where We Were” uno dei brani che raccoglie maggior consenso, eseguito in maniera straordinaria, in cui si può ammirare Ben che suona con la mano girata sopra la tastiera in uno dei suoi stili più caratteristici, seguita dal magnifico incedere nelle progressioni e impennate di accordi di “Oats in the Water”, in cui le due chitarre si alternano creando un cupo e catartico e paesaggio sonico col basso.
Sentendo intonare brani più rodati del passato come “Conrad” e soprattutto con il ritmo travolgente di “The Fear” il pubblico non si trattiene e si muove cantando all’unisono.
Ciò che si percepisce nettamente è la maturità di un artista che ha scelto di non dare per scontato il suo successo ma di continuare ad esplorare, viaggiando verso nuovi territori sonori che impreziosiscono le sue qualità di eccezionale chitarrista e ci portano a scoprire stratificazioni sperimentali, sebbene forse la dimensione acustica permetta di apprezzare maggiormente le elaborate tecniche di fingerpicking che sono sue peculiarità e tratti stilistici come la capacità di eseguire continue variazioni aggiungendo note riservate normalmente al basso.
Per concludere la setlist troviamo sul finale l’eterea “Spirit” brano che eleva la sua recente esperienza ad un livello quasi trascendentale e che significativamente contiene anche il titolo dell’album -What’s mine, anyway? Spirit? Is it?-
Ben Howard si congeda così dopo aver regalato un’ora e trenta minuti di grande spettacolo, sottolineando che l’atmosfera del luogo era realmente magica e che non capita spesso di suonare ai piedi di una cosi imponente torre campanaria.
A grande richiesta c’è ancora il tempo per un encore in cui deliziare il pubblico con “Life in The Time” e “All Is Now Harmed”.
La sensazione che resta nell’aria è di aver assistito a qualcosa di eccezionale, un viaggio di suoni ed emozioni che solo i grandi artisti sono in grado di regalare, in uno spazio rarefatto nel flusso del tempo, che resterà a lungo impresso nella memoria dei fortunati presenti.