Parlare di un live dei Depeche Mode nel 2023, non so se ha ancora senso, più di quarant’anni di carriera assurda per, probabilmente, a conti fatti, la band più longeva di sempre in termini di pubblicazioni “ad asticella alta”, anche l’ultimo arrivato, da qualche mese, dopo la prematura scomparsa del fondatore Andrew Fletcher, non delude e aggiunge l’ennesima casella ad un mosaico incredibile.
Ripensandoci, forse invece ha senso, proprio perché questo è il primo giro di concerti senza Andy, l’anello di congiunzione ideale quanto fondamentale tra le due contrapposte anime di Martin Gore e Dave Gahan, un pilastro indimenticabile per la storia dei Depeche Mode e per arrivare a quattro decadi suonati di unione solidale, significa che tutti i tasselli sono stati posizionati a dovere, facendo suggestionanti montagne russe tra tutti i problemi risaputi e non che ne hanno contraddistinto una carriera sempre ai massimi livelli. Oltre a “Memento Mori” dove aleggia, giustamente, la sua figura, anche questi live che sanno di morte e rinascita sono impregnati dell’assenza / presenza di Fletch, ricordato e sentito, quanto sembrerà strano per i compagni di una vita, non vederlo lì, al suo posto, dietro un muro di synth, a mettere ordine.
Tornando ai Depeche e a questa ennesima ripartenza, non mi risulta ci siano altri collettivi in grado di scrivere sempre le canzoni giuste, al momento opportuno e, di fatto, non deludere mai, la sorprendente e drammatica “Ghosts again”, primo singolo estratto dall’ultima fatica, ci porta un gruppo di amici ritrovati sempre attenti e volere regalare pagine storiche da veri signori.
Martin Gore, idolo indiscusso e, ricollegandomi, uno degli autori più importanti di sempre della musica d’oltremanica, continua ad essere lui, come fosse il primo giorno, sono si, un caso di studio, i Depeche Mode, sempre avanti e può sembrare una cosa normale, rendendo la pubblicazione, a più di quarant’anni dall’esordio, di “Ghosts again”, biglietto da visita dell’ottimo quindicesimo album, come un dettaglio di normalità, ma non può essere assolutamente così.
Il mastodontico live a supporto della nuova fatica discografica è tutto ciò che uno vorrebbe sentire, se non altro per una scaletta o setlist inimmaginabile per tutta l’immensità racchiusa all’interno, che sa ovviamente di inevitabile piccolo best of, sicuramente più cupa, riflessiva o introversa che in passato, anche per rispetto di un certo momento oscuro che la vita ha portato loro, o almeno parte di questo, dato che in due ore di evento regalano le tappe obbligate ed è una festa di scrittura e di melodie da miracolati. Di Martin Gore ne nascono purtroppo pochissimi, e forse sono anche specie in via di estinzione, una sorta di “Lazzaro alzati e cammina”, uno che scrive un brano come “Walking in my shoes”, per il sottoscritto tra le cinque canzoni più belle di sempre, non può che essere un prediletto, non c’è molto da aggiungere e se poi sulla sua strada trova una delle voci più caratterizzanti del secolo scorso, il risultato è l’eccellenza, che abbiamo conosciuto, da tanti anni a questa parte, arrivando ad un pubblico enorme, quello degli stadi, senza ovviamente mai e poi mai concedere nulla al compromesso.
Addentrandomi nella serata, per le date italiane sono gli Haelos, ad essere incaricati ad aprire le danze, vengono da Londra e su disco, incarnano il suono di Bristol che tanto fece rumore a metà degli anni novanta.
Sono le 19,45, quando salgono sul palco, è ancora ragionevolmente chiaro, fanno mezz’ora di set, dove il suono prende la piega più rock che le atmosfere succitate. Apprezzati e applauditi.
Depeche subito dopo onstage, per due ore esatte di show, uno spettacolo indimenticabile e clamoroso, e nonostante il passare degli anni una prova di forza e di risalita, quasi come se dovessero dimostrare ancora tutta la loro eccellenza, Dave Gahan in forma smagliante, come una ragazzino, le solite coreografie di Anton Corbijn stralunate, eccentriche e parte fondamentale del racconto, fanno di questo “Memento Mori Tour” un’ennesima cavalcata, di una delle band più importanti di sempre anche nella dimensione live.
La claustrofobia “Cosmos is mine” apre il filotto iniziale, “Walking in my shots” arriva già per terza, uno dei brani più importanti dell’intera carriera, caposaldo di quel “Songs of Faith and devotion” che regalò un altro lato della luna, passando da un suono prettamente sintetico, con l’introduzione anche della batteria dell’allora compagno Alan Wilder e di un certo suono chitarristico, per una seconda parte di genesi di percorso sempre e solo sugli scudi. Quel controverso disco, anche indelebile ricordo del periodo più difficile dei Depeche Mode, era pieno zeppo di canzoni fuori categoria, dalle parti dell’ennesimo capolavoro.
E la costruzione armonica di questa canzone è una delle tante e clamorose intuizioni di questo collettivo. E quando 60000 persone cantano all’unisono “You’ll stumble in my footsteps, Keep the same appointments I kept If you try walking in my shoes, If you try walking in my shoes” significa molto, moltissimo.
Subito dopo “It’s no good” ci riporta al 1997, ad un album, “Ultra”, che chiude di fatto la trilogia degli anni novanta, un disco importantissimo, quanto bellissimo e ispirato, da spartiacque ai ben noti problemi di salute legati ad una vita tormentata, e quella canzone ricollega i Depeche ad un certo passato, “Sister of night”, “In Your Room”, “Everything Counts”, “Precious”, una dietro l’altra, necessitano di presentazione?
Dopo il momento in solitaria di Martin alle prese con “A question fo lust” e “Soul With me”, torna il fantasma di Fletch con “Ghosts Again”, già evergreen e, per quanto mi riguarda, miglior singolo dell’anno, comunque potrei citarle tutte, ma “World in my eyes” diventa una punta dell’iceberg e senza retorica, con il giusto humor inglese, porta il compianto compagno quasi fisicamente a San Siro, con il susseguirsi di immagini di un Andy giovanissimo, che accompagna tutto il brano, un omaggio che non poteva essere più elegante, leggero, divertente e migliore di così.
“Enjoy the silence” è il sing-a-long per eccellenza, sicuramente un’altro dei brani più importanti della storia della musica moderna, nei bis ancora una toccante e commovente “Waiting for the night” pianoforte e voce, spazio per le hit come “Just Can’t Get Enough” e “Never Let Me Down Again” da quel “Music for the masses”, forse la loro raccolta più importante per l’ascesa e la possibilità di portare grande musica senza barriere e pregiudizi per un pubblico enorme.
Chiude l’immancabile “Personal Jesus”, probabilmente una fotocopia di tanti loro altri concerti, perché una band così non può che farne di queste proporzioni, perché sono una pietra universale e preziosa da tenersi stretti, oltre ogni immaginazione.