“L’autunno fatto disco“: il caro amico Michele ha usato questa frase per descrivere “I Am Not There Anymore”, ultima fatica dei Clientele. Si potrà anche sorridere, eppure nella sua essenzialità e schiettezza è una sentenza perfetta e assolutamente rappresentativa di quanto andremo a sentire.
La band dopo il meraviglioso “Music for the Age of Miracles” riesce nell’impresa di mantenere altissima l’asticella della qualità, non sbagliando praticamente nulla in un disco pervaso da quella grazia malinconica e dall’eleganza che da sempre contraddistingue il suo percorso sonoro che, ormai, definire semplicemente “chamber pop” è riduttivo.
Alasdair MacLean, come ci ha detto nell’intervista che ci ha rilasciato, ha modificato il suo approccio, aprendosi maggiormente alla sperimentazione, anche nell’approccio di realizzazione dei pezzi, e il risultato è un disco di ben 19 canzoni, un vero e proprio viaggio in un mondo onirico e avvolgente, che non ha paura di risultare tanto ambizioso quanto fuori dal tempo e dallo spazio. Ed è questo il merito di una formazione che, ricordiamolo è attiva praticamente da più di trent’anni: proporre qualcosa di affascinante, dai contorni sempre sfumati e inafferrabili, momenti sonori preziosi e simbolici in eterna sospensione tra il giorno e la notte, in quel passaggio in cui la luce non è mai troppo forte e le ombre non prendono il sopravvento. Un ombroso autunno sonoro che solleva ricordi, emozioni, sensazioni dimenticate. Proprio quelle che Alasdair riporta a galla, parlando della morte della madre, del lutto, dell’infanzia, di quel paesaggio in cui è cresciuto e che ancora gli si ripresenta come una fotografia nitidissima nella mente: il viaggio di Alasdair è certo personale, ma la musica della sua band è così empatica e avvolgente che il “suo” viaggio diventa anche il nostro, perché non possiamo non sentirci parte di qualcosa mentre ascoltiamo questo disco, capace di travalicare, come accennavo sopra, tempo e spazio, grazie a canzoni che sembrano realmente non avere età.
Parlavo dei ricordi. Si, quelli che ti sembra di afferrare e poi sfuggono, che sono così limpidi e in un attimo si fanno più opachi e proprio così i Clientele si muovono, scivolando tra gli estremi, sui bordi, tanto dolci, semplici e soffusi, quanto a tratti ossessivi, ipnotici, riflessivi, evocativi come possono apparire quei brevi frammenti che fanno capolino nell’interno del disco, anche spiazzanti se vogliamo, con le dissonze di “My Childhood”.
Musicalmente la band è comunque fedele a sè stessa, al suo sound delicatamente popedelico, che ingloba elementi “di pop da camera” così come sognante folk, in un dipinto dalla mano sempre felice in cui Beatles, Beach Boys e High Llamas convivono e si mescolano per incantare cuore e mente, ma ci sono anche piccole novità di rilievo, con il ricorso maggiore a spunti elettronici o arrangiamenti che paiono davvero partiture di musica classica. Come non rimanere affascinati e senza fiato di fronte all’ incedere candido e suggestivo di gentilezze come “Hey Siobhan”, “Garden Eye Mantra” o “Through The Roses”, canzoni in cui il marchio di fabbrica della band si staglia come un simbolo, come un riparo per cuori affranti, per tutti coloro che vedono il bedroom pop come qualcosa di necessario per superare i mille ostacoli della vita e trovare conforto in note dolcissime.
Ma le perle sono tantissime: un paio di mid-tempo che paiono essere stati costruiti per essere già classici immortali fin dal primo ascolto, grazie a melodie sublimi e arrangiamenti curatissimi (marchio di fabbrica del disco), parliamo di “Lady Gray” e “Blue Over Blue” e che dire di “Claire’s Not Real”, che da sola prende e condensa tutto il New Acoustic Movement dei primi anni 2000, tra Bossa Nova e sublimazioni acustiche che toccano il vertice in un ritornello che non ci si crede. No no tranquilli, non mi sono dimenticato di “Fables of the Silverlink” che è opera d’arte nell’opera d’arte. 8 minuti e 30 secondi visionari in un vero e proprio trattato sonoro che pesca a piene mani dall’inventiva “beatlesiana” più ispirata, con gli archi che si alternano ai fiati mentre la ritmica disegna un tappeto incalzante, su cui non c’è solo un delicato Alasdair, ma anche voci infantili che, alla loro comparsa, sembrano rendere vagamente inquieta una bellezza e una soavità da giardino dell’Eden, prima che ancora il gioco degli arrangiamenti ci riporti a suggestioni da pelle d’oca.
Sono in estasi. Credo lo avrete capito. Disco dell’anno.
Io, in chiusura, mi sento di dire una cosa: solo pochi eletti, come sempre, toccheranno veramente il cielo con un dito grazie ai Clientele, per tutti gli altri ci sarà l’ultimo dei Blur. Accontentatevi e credete di godere, se vi basta, altrimenti sapete già a chi rivolgervi, Alasdair MacLean vi aspetta.