Non erano ancora quelli di “Music For The Masses” e non erano più quelli di “A Broken Frame”. Agli inizi del 1983 i Depeche Mode erano in cerca di un’identità – sonora e creativa – un po’ più incisiva di quella mostrata nei due album precedenti e l’ingresso nella band di Alan Wilder ha rappresentato, in tal senso, il tassello giusto al posto giusto. Il contesto in cui nasce e si sviluppa “Construction Time Again” è più o meno il seguente: Martin Gore, dopo essere ritornato da un viaggo trascorso in Thailandia e dopo le scorribande notturne nella Berlino divisa (ancora per qualche anno) dal muro, resta fortemente impressionato da un certo tipo di sound di matrice krautrock. Più che altro, lo stuzzica l’idea di dare una sterzata ai suoi testi e di unire l’industrial degli Einstürzende Neubauten ad un contesto pop. Non a caso, “Construction Time Again” è il primo capitolo della trilogia berlinese (proseguita con “Some Great Reward” e “Black Celebration“) di Dave Gahan e compagni. Quello che da alcuni fan viene considerato quasi come il primo, vero album della loro gloriosa storia.
Dall’altro lato, l’apporto di Wilder arricchisce non poco la gamma di idee dei quattro ragazzi inglesi, risultando decisivo. Tant’è che il nuovo “tastierista” (appellativo preso in prestito dal leggendario annuncio apparso sul “Melody Maker” e pubblicato dai Depeche subito dopo l’abbandono di Vince Clarke) firma ben due dei nove brani presenti nel disco, vale a dire “Two Minute Warning” e “The Landscape Is Changing”. Trilogia berlinese fino a un certo punto, però. Già, perché di comune accordo con il producer, Daniel Miller, “Construction Time Again” viene registrato in patria, ai Garden Studios di John Foxx a Londra. Sofisticati campionamenti fanno da contraltare alla scrittura di Gore che diventa più dark e malinconica. Prendete “More Than A Party” e il suo sound da lunapark folle. Il testo è pieno di disillusione nei confronti della scena politica di allora. Citofonare alla voce “Margareth Thatcher“. Oppure, pensate a “Love, In Itself”, la prima traccia. Il ritornello martellante e le chitarre avvolte ai sintetizzatori come tavole ai surfisti pongono il brano in questione come uno dei primissimi scossoni inflitti ai precedenti lavori.
“Everything Counts” è lo squillo al futuro che verrà. Oltre che un momento catartico in tutti i live della band passati e presenti. Le liriche puntuali, l’intrigante campionamento e la melodia pop costituiscono il (raffinato) ponte fra ciò che era stato e ciò che era in divenire. E poco importa se “Shame” graffia in maniera superficiale – o, almeno, non quanto potrebbe – e se l’esperimento industrial di “Pipeline” sia riuscito parzialmente. I Depeche Mode avevano appena iniziato la loro caccia al mondo.
“Told You So” ne rappresenta l’esempio lampante. Il testo di Gore (e di chi, se no?) fortemente ispirato a “Jerusalem”, poesia di William Blake, si sposa alla perfezione con la voce già iconica di Gahan ed ai suoni già smaliziati di Wilder. Quest’ultimo, tra l’altro, aveva portato in dote il brano ecologista “The Landscape Is Changing” ed il timore nucleare di “Two Minute Warning”. In pratica, la fase di ambientamento del buon Wilder era durata quanto uno schiocco di dita. Merito pure del compianto Andrew Fletcher. Figura messa in risalto sempre troppo poco per quelli che erano i suoi (indiscutbili) meriti. Uno su tutti, quello di fungere da equilibratore della band e, soprattutto – entrando più nello specifico – di fare da ponte levatoio fra l’esuberanza spavalda di Dave Gahan e la sensibilità quasi ecumenica di Martin Gore.
Tirando le somme, possiamo affermare, con un certo margine di certezza, che “Construction Time Again”, pur essendo magnificamente imperfetto, rappresenta la chiave di volta dei Depeche Mode prima maniera. Una porta sbarrata ai primi due album. Ed una spalancata a quelli successivi.
Pubblicazione: 22 Agosto 1983
Durata: 49:44
Dischi: 1
Tracce: 9
Genere: Synth-pop, industrial
Etichetta: Mute, Sire
Produttore: Daniel Miller, Depeche Mode