Trovo che fino a poco tempo fa Hozier fosse incredibilmente sottovalutato in Italia, nonostante sia ormai un gigante del suo genere – basti pensare a come durante Sanremo 2022 lo abbiano trattato come semplice groupie dei Meduza, facendolo anche cantare in playback. Nulla di sorprendente, ma vedere episodi come questo fa storcere un po’ il naso, soprattutto se si considera che invece all’estero l’artista è praticamente una superstar. Bene, dopo due album eccezionali l’artista irlandese è tornato sulla scena con “Unreal Unearth”, disco che sta riaffermando l’importanza di Hozier nel panorama musicale attuale, anche in quello italiano. E finalmente, verrebbe da dire.
La storia di “Unreal Unearth” è particolare. Non possiamo sapere i dettagli ma sappiamo che, sulla scia dell’album eponimo e di “Wasteland, Baby!”, sarebbe dovuto essere il classico album alla Hozier: testi impeccabili, adorazione totale nei confronti della figura donna-angelo (come in “Rob The Goddess”, brano anticipato ma mai venuto alla luce), e così via. Non che ci sia nulla di male nella classica scrittura di Hozier, anzi; semplicemente, dalle parole di un artista incredibilmente innamorato siamo passati a quelle di un artista sì innamorato pazzo, ma con il cuore a pezzi. Ed è da qui che parte veramente “Unreal Unearth”.
‘Amor, che ne la mente mi ragiona’ cominciò egli a dir sì dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona. (Dante, Divina Commedia, Purgatorio, Canto II)
Da buon album ispirato all’Inferno di Dante, “Unreal Unearth” si divide in più cerchi, anticipati dall’effettiva discesa negli inferi: le due parti di “De Selby”, che abbiamo avuto l’onore di sentire in anteprima durante il live a Gardone Riviera, all’Anfiteatro del Vittoriale. Partendo dal tema dell’oscurità, del peccato e della ricerca di sé, Hozier decide di iniziare questo viaggio prima con un canto solenne in gaelico, come ad annunciare l’impresa che sta per compiere; conclude il prologo in maniera totalmente diversa, molto più rock e funk di quello che ci si poteva aspettare. Il poeta ha ormai capito che ha un’oscurità immensa dentro di sé, che dovrà pur uscir fuori in qualche modo. Ed ecco che arriviamo al Limbo, “First Time”. Se nell’opera dantesca il Limbo è dove le anime non provano né tormento né pace, nel brano l’artista inizia a processare la fine infelice del suo amore, ricordando come si sentisse vivo e al contempo sul punto di morire in presenza della persona amata.
Un amore che nasconde sofferenza, che lascia presto spazio alla storia d’amore più famosa di sempre: quella di Paolo e Francesca, che proprio in “Francesca” trovano un modo per esprimere liberamente tutta la passione che li ha portati a spendere l’eternità insieme. All’inferno, ma pur sempre insieme. La parte finale del brano è, paradossalmente, paragonabile a un coro angelico, accompagnato dalle parole “Heaven is not fit to house a love like you and I“. Se nella Commedia i due amanti vengono descritti come miseri e infelici, qui è tutto il contrario; il vero Paradiso si trova nelle anime a noi affini, non in qualche regno celeste.
Per un briciolo d’amore si è disposti a sopportare di tutto: lo sa bene Icaro, figura centrale di “I, Carrion (Icarian)”; non solo il giovane rischia la vita per riuscire ad avvicinarsi il più possibile al sole, ma anche sul punto di cadere nega di star cadendo: piuttosto, è il mondo intorno a lui a cadere. Anche qui abbiamo un amore che porta alla morte, suggerito anche dal titolo stesso (“carrion” è traducibile con “carogna”), ma non importa; come potrebbe mai davvero cadere, se è sollevato dalle parole della persona che ama?
Seguono “Eat Your Young” e “Damage Gets Done”. La prima consiste in un omaggio al saggio satirico del 1729 “A modest proposal” di Jonathan Swift, nel quale quest’ultimo suggerisce ai proletari irlandesi di vendere ai ricchi i propri bambini per farglieli mangiare; rifacendosi al cerchio dei Golosi, Hozier riprende questo concetto applicandolo ai giorni nostri: i tenori di vita sempre più precari, la crisi immobiliare e quella climatica sono tutte conseguenze di una generazione che ha pensato più ai risultati immediati che non a quelli a lungo termine; tanto valeva mangiarci davvero l’un l’altro, a questo punto.
Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria. (Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto V)
Ed ecco infine “Who We Are”, forse il brano più intenso di tutto “Unreal Unearth”; protagonista è di nuovo il tema dell’oscurità, più nello specifico il sentirsi persi e provare a trovare una via d’uscita con le unghie e con i denti. Qui la perdita della persona amata ha fatto così male da rendere l’amante insensibile ormai a qualsiasi tipo di dolore, al punto che scongiura che passi qualcuno a tenerlo come fosse acqua o come fosse un coltello. Non c’è più vita, non c’è più morte: solo tanta, tanta indifferenza e voglia di urlare contro il mondo intero (siamo pur sempre nella cerchia degli Iracondi!), perché una via d’uscita da questo inferno, letterale e non, non si trova proprio. L’autore si trova costretto nuovamente a capire chi è senza l’altra persona, e la questione lo lacera al punto da finire il brano con un canto esasperato, viscerale. “Who We Are” è dolore puro, per chi il dolore non sa più come processarlo.
Si fa così spazio “Son of Nyx”, magnifico pezzo strumentale scritto a tre mani: Hozier, il produttore Bekon e il bassista Alex Ryan; qui l’album si divide, dando inizio alla parte più oscura del disco. Si tratta di un viaggio ancora più doloroso del primo tratto, se possibile, ma l’obiettivo è sempre quello: trovare la luce.
L’atmosfera si fa più cupa, da subito: anche quando la musica sembra più allegra, come in “All Things End” o “Anything But”, il testo non lascia interpretazioni positive; da segnalare in questa parte in primis “Butchered Tongue”, corrispondente al cerchio dei Violenti, in cui dei dolci archi accompagnano il racconto di una delle pagine più buie della storia d’Irlanda. Si parla infatti delle violenze inflitte dai britannici agli irlandesi durante la ribellione di Wexford del 1798, durante la quale fu portata avanti la pratica di tagliare varie parti del corpo, in particolare le orecchie. Nel brano invece a raccontare la propria storia è una lingua, che in questo caso rappresenta anche la stessa lingua irlandese: così come a diversi irlandesi è stata tolta la possibilità di parlare o sentire fisicamente, allo stesso modo è stata fortemente scoraggiata la diffusione (nonché la sopravvivenza) del gaelico.
“Salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch’i’ vidi de le cose belle / che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle.” (Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto XXXIV)
Si intravede uno spiraglio di luce con “Abstract (Psychopomp)”, che però presenta ancora tracce di contraddizioni: al dolore causato dall’amore perduto si contrappone la gioia di averlo avuto; un amore descritto ormai come un animale morente sul ciglio della strada, con un luccichio che resiste e persiste nei suoi occhi. Se questa però è l’immagine della fine di questo sentimento, il sentimento vero e puro consiste nell’accorrere e provare a salvare in ogni modo questa creatura, soprattutto dopo averne visto gli occhi scintillanti. C’è il rischio di venire investiti nel tentativo, ma non importa. L’amore, forse, è anche questo: buttarsi e rischiare il tutto per tutto, anche solo per un secondo di felicità. Il ricordo fa un male tremendo, ma non è mortale – “No one dies from love”, come canterebbe Tove Lo. L’importante è sempre trovare un modo per andare avanti con il sorriso, per quanto dolceamaro possa essere.
“Unknown / Nth” è, invece, una pugnalata al cuore, nel peggiore e migliore senso possibile – dopo averla sentita dal vivo, ancora di più. Protagonisti sono solo Hozier e la sua chitarra, e forse questa caratteristica rende il pezzo ancora più doloroso. Il poeta si rende conto di essere stato tradito dalla persona a cui più teneva, ma questo non lo ferma dal rivelare che il bene che prova continua a essere così grande da esserne quasi schiacciato; è veleno nel sangue, gelo nel cuore. Un pezzo tutto sommato semplice, che però arricchito dalla voce di Hozier si carica di millemila sfumature, una più sofferente dell’altra.
Nettamente in contrasto è “First Light”, unico vero e proprio risvolto positivo del disco, non a caso messo in chiusura. L’atmosfera è gloriosa, i cori che circondano la voce dell’artista sono trionfali, come ad annunciare l’esito positivo di questa battaglia interiore. Non una vittoria totale contro l’oscurità, perché “riuscirà sempre a trovarti“, ma la più matura consapevolezza che luce e ombra sono due lati della stessa medaglia, così come gioia e sofferenza. Non si parla più di cerchi, ma di “ascesa”: è un nuovo giorno, è vedere l’alba dopo una notte che sembrava infinita, la disperazione che lascia il posto alla speranza e alla convinzione che le cose andranno meglio. Rendersi conto di meritare di vedere le stelle, invece che accontentarsi di qualche fioco bagliore.
Si conclude così “Unreal Unearth”: sono molte le opere, musicali e non, che traggono ispirazione dalla Commedia, ma poche si avvicinano a ciò che è venuto fuori con questo album. Una scrittura pressappoco perfetta, alla base uno studio accurato di musica, letteratura e storia, un’armonia di voce e suoni che rende perfettamente ciò che vuole trasmettere ogni singola canzone. Tutto questo senza lasciare spazio a presunzioni, ripetizioni o banalità. Non da dieci e lode, ma poco ci manca.