A settembre dello scorso anno i Codeine hanno pubblicato il loro terzo album, “Dessau”: le otto canzoni del disco, originariamente registrati nel 1992, erano state scartate, ma la maggior parte di loro vennero ridistribuito tra l’EP “Barely Real” (1992), l’album “The White Birch” (1994) e la compilation “When I See The Sun” (2012).
La reunion della storica band slowcore originaria di NYC è quindi diventata realtà e gli ha finalmente riportati anche in Europa dopo undici anni: stasera ci troviamo al Locomotiv Club di Bologna per la loro unica data nel nostro paese.
La prima stagionale per il locale situato nel Parco Del Dopolavoro Ferroviario è sicuramente molto positiva perché il sold-out è arrivato già da qualche giorno e quindi non rimane che ritirare le nuove tessere AICS per il 2023/2024 alla cassa prima di entrare.
L’orario di inizio è piuttosto “particolare” per le nostre latitudini (nei paesi più a nord dell’Italia sarebbe abituale): gli statunitensi, infatti, salgono sul palco alle otto e mezza in punto come precisato anche da alcune mail inviate nei giorni precedenti dal rivenditore dei biglietti (in questo caso Dice.fm).
“D”, opening-track del loro debutto full-length, “Frigid Stars”, è l’incaricata ad aprire il concerto: Stephen Immerwahr si presenta semplicemente dicendo:
We are Codeine from New York City.
Gli arpeggi iniziali di John Engle sono assolutamente delicati, ma poi il suono diventa molto più potente, mentre i vocals del bassista e frontman sono letteralmente struggenti e spezzano i cuori dei numerosi presenti in sala stasera.
Decisamente più sperimentale la successiva “Cigarette Machine”, con un continuo cambio di atmosfera da violenta e cattiva a calma ed empatica, per poi ritornare ancora rumorosa e incisiva, mentre il lavoro di Chris Brokaw dietro al suo drumkit è davvero eccellente.
E’ poi la volta di “Barely Real”, title-track dell’EP del 1992: anche qui sono dolori pesanti per il cuore dei fan emiliani perché la sua emotività e la gentilezza della sei corde di Engle sono qualcosa di indescrivibile e toccante.
Una delle più belle canzoni del concerto è senza dubbio “Washed Up”, estratta da “White Birch”: gli arpeggi delicati di John si alternano a momenti di continua crescita e di violenza sonora, mentre la voce pulita di Stephen riesce a creare atmosfere che definire magiche è ancora molto poco per un bagno di purezza totale.
L’intensità dei suoni continua ad alternarsi anche in “Sea” fino ad arrivare ad alcuni momenti esplosivi e pesanti, ma le emozioni rimangono sempre struggenti, mentre la rilettura in chiave slowcore di “Atmosphere” dei Joy Division è qualcosa di altrettanto incredibile e inaspettato.
C’è ancora spazio per un encore di tre pezzi che si chiude con la bellissima “Broken Hearted Wine”, incredibilmente intima e disegnata con una strumentazione minimale.
Un concerto ricco di atmosfere straordinarie, che ci ha portato per un’ora dieci indietro di qualche decennio, lasciando scorrere sulla pelle dei tanti fan bolognesi grandissime e indiscrivibili emozioni.