Abbiamo avuto l’occasione di fare una bella chiacchierata telefonica con Alessandro Bertolino, autore, voce e chitarra degli Autoradio, gruppo emergente piemontese che in estate ha pubblicato l’interessante album “Ultrapop”, a cui avevano dedicato tanto tempo e lavoro (e di cui potete leggere la recensione qui).
Ciao Alessandro, è un piacere sentirti dopo che ci eravamo visti questa estate a casa di Lorenz Zadro della A-Z- Press, vostro Ufficio Stampa. In quel momento eravate in rampa di lancio con il disco. Quante cose sono cambiate da allora? Vi siete concentrati su questo progetto, portandolo in giro dal vivo o siete già all’opera su nuove canzoni?
Ciao Gianni, anche a me fa piacere risentirti. Questi ultimi mesi sono stati fatti principalmente di concerti dal vivo, in parallelo con l’attività di busking che abbiamo sempre portato avanti in base agli altri impegni, motivo per cui venimmo anche in zona a Verona questa estate. I concerti dal palco, diciamo così, si sono concentrati tutti abbastanza nelle nostre zone di provenienza (loro sono del cuneese, ndr), quindi più che altro in Piemonte e Liguria, abbiamo battuto l’Italia del Nord-Ovest. Ma ovviamente abbiamo al contempo continuato a scrivere, quando ti viene un’idea non la lasci scappare e tra cose nuove e altre già nel cassetto ma non registrate vi sarebbe diverso materiale per un altro album e non solo, non vediamo l’ora infatti di tornare negli studi di registrazione.
Fate come gli Oasis, che scrivevano tanto e poi andavano per sottrazione?
In effetti fino adesso abbiamo sempre fatto un po’ così, tante idee oltretutto stanno venendo anche da componenti del gruppo che in passato avevano scritto un po’ meno e questo è un valore aggiunto per il nostro percorso.
Come vi siete formati e da dove provenite? Siete tutti dalle stesse zone, a parte Giuseppe Crimi mi pare, prima c’era un altro batterista: siete tutti mediamente molto giovani ma se non sbaglio suonate insieme da un bel po’ di tempo, no?
Esatto, prima c’era Nicholas (Basso) un altro batterista, che è presente anche nel disco dove ha registrato diversi brani, e magari orecchi più esperti possono individuare dove suona lui e dove invece Giuseppe. Beh, la nostra è una storia da scrivere, perché ci siamo formati in maniera classica e veramente ci conosciamo da una vita ormai.
Specie tu e tuo fratello Alfio (che suona il basso, ndr)…
Eh sì, ma a parte mio fratello, se penso al nucleo storico del gruppo devo dirti che ci siamo incontrati e abbiamo iniziato a suonare assieme alle scuole medie, col classico annuncio sulla bacheca dell’istituto: “cercarsi cantante, cercasi bassista ecc…”, abbiamo messo il numero di telefono, una cosa proprio all’antica insomma!
Avete perseverato, mi sembra di capire che siete arrivati tardi a incidere o avevate avuto altre esperienze in precedenza?
In realtà qualche piccola esperienza in studio l’avevamo avuta, eravamo sì molto giovani ma la voglia di mettersi alla prova c’era; qualcosina avevamo anche registrato ma di quel periodo non abbiamo tirato fuori niente, erano per lo più cover e qualche brano nostro, all’epoca scrivevamo però in inglese.
In quel nucleo originario c’eravate quindi già voi cinque che poi a distanza di più di dieci anni avreste pubblicato “Ultrapop”?
Siamo passati attraverso alcune fasi, da quella primissima formazione ci fu un primo anno di assestamento con due elementi che se ne andarono presto però fondamentalmente da subito il nucleo ruotò attorno a noi 4 (Alessandro e Alfio Bertolino, Matteo Bessone, chitarra e voce e Lorenzo Turco, tastiere e voce) più il primo batterista. Abbiamo perseverato ma nel frattempo sono successe anche tante cose, alle fine delle scuole superiori abbiamo per un attimo smesso di suonare assieme, ovviamente ognuno continuava a farlo in qualche altro progetto e poi invece con la scusa di un concerto che ci hanno chiesto di fare ci siamo ritrovati e da lì io, che avevo nel frattempo accumulato nel cassetto qualche canzone in italiano, ho deciso di proporle a loro, il gruppo storico diciamo. Stare di nuovo insieme a suonare fu una cosa assolutamente naturale ma in quel secondo inizio vuoi per una maturità diversa, vuoi perché ci sentivamo più pronti, decidemmo di dedicarci al progetto con uno spirito diverso.
Quando ricominciaste vi chiamavate già Autoradio?
Per un periodo in realtà no, si sono nel corso della nostra storia succeduti tre nomi: il primo nome Walhalla denota una derivazione metal, all’epoca ci cimentavamo un po’ in quel genere, poi quando abbiamo iniziato a scrivere in italiano ci chiamammo Castadiva, con cui facemmo un Ep senza farlo uscire in modo ufficiale, si intitolava “Oniriche Musiche”. Un ulteriore e definitivo cambio di nome ci fu quando iniziammo a fare solo pezzi nostri, prima erano sia cover che pezzi nostri; il nuovo nome in quel momento voleva sancire un effettivo cambiamento. Autoradio rispecchia un’idea di musica legata al passato ma che si muove sempre come fa in fondo l’autoradio che ancora oggi c’è anche se magari chiamata in un’altra maniera. E poi è un nome che suona bene in diverse lingue, quindi ci era piaciuto e in un secondo momento abbiamo deciso di assegnare il nome di Castadiva all’album dapprima intitolato “Oniriche musiche” che racchiude un po’ quell’altro periodo.
Il primo batterista Nicholas si vede in alcuni videoclip ed è presente nel disco, quindi Giuseppe è entrato durante la registrazione dell’album o era già quasi tutto finito?
Nello specifico Beppe c’è su due pezzi, la maggior parte è suonata da Nicholas che poi è voluto andare via per motivi suoi personali.
Mi sembra però che Giuseppe si sia integrato molto bene nello spirito di un gruppo come il vostro che è estremamente coeso. Che cosa vi ha portato? Vi ha dato una marcia diversa?
Sicuramente ci ha dato una bella marcia, ci piace come suona e come ci troviamo a costruire cose nuove con lui perché è molto recettivo su questo aspetto, e poi si avverte comunque una continuità perché ha un sound sanguigno come quello del suo predecessore.
Avete citato l’album precedente “Castadiva” che in realtà vi mostra in uno stato ancora embrionale a livello di composizione; al di là della produzione dei mezzi diversi ho notato un grande scarto stilistico tra quel disco e il nuovo “Ultrapop”. Ok che sono canzoni scritte negli anni ma è oltremodo sorprendente la differenza tra i due lavori. Come siete arrivati a definire il vostro sound che ora è molto variegato, multiforme, pop; come siete arrivati a questa evoluzione per cui uno che vi ascolta su Spotify potrebbe pensare si tratti di due gruppi diversi?
Intanto grazie per questa tua considerazione. Guarda, ti posso dare una mia spiegazione, visto che nello specifico molti di quei primi brani e di questi ultimi li ho scritti io. Tu hai già parlato della differenza di mezzi e produzione ma questo in fondo è secondario, tu ti riferisci proprio a livello di scrittura immagino…
Sì, non dico che fossero brutte canzoni ma noto proprio uno scarto di stile, di musicalità, di suono, di rimandi, diversi elementi che mi fanno pensare a un cambiamento tangibile.
Certo. Io credo auto-analizzandomi che nel mio primo esperimento di scrittura fossi inconsciamente vincolato all’idea di dover dimostrare di poter avere una certa profondità, di poter avere una certa serietà.
Che poi comunque eri molto giovane come abbiamo visto quando scrivesti i tuoi primi pezzi, giusto?
Sì, i primi brani li scrissi a 18 anni. Era un momento in cui ero molto dentro al mondo del cantautorato, dentro il mondo progressive e mi piaceva cercare di riappropriarmi di certi stilemi se possibile, che sembrano quasi garantire un marchio di credibilità se vuoi a livello musicale, era un po’ una ricerca personale in tal senso. Poi come normale che accada, sono successe tante cose nelle nostre vite e inevitabilmente quello che cambia nella vita ti cambia anche di riflesso nel tuo modo di esprimerti, nello stile di scrittura. In linea generale una volta che hai dato prova soprattutto a te stesso di riuscire a essere “profondo” ti rendi conto anche tu che non devi farlo o esserlo per forza, perché comprendi che non c’è solo quello che vale la pena di trasmettere.
Infatti Alessandro le canzoni di “Ultrapop” sembrano più “libere”, le ho sentite molto più sfrontate ma non in senso negativo, come se proprio vi foste appunto liberati, buttando fuori delle idee diverse, e il risultato è un lavoro più fresco e anche più naturale in un certo senso.
Sì lo credo anch’io, perché in questo modo sono state tolte delle zavorre, stilistiche anche, si è cercato di andare più all’essenziale, alla schiettezza pure da un punto di vista musicale, laddove all’inizio ero invece più attaccato all’idea di dover sfoggiare un po’ di complessità.
Le canzoni ho capito che le avevi per la maggior parte composte tu, ma poi quello sul disco è diventato un lavoro collettivo? Perché a me da’ l’idea che siete un gruppo molto democratico, dove vi scambiate le parte vocali, ci sono questi controcanti e spazio per tutti gli Autoradio. Come vi comportate in studio?
Questo è vero, sicuramente, quando dico che scrivo la maggior parte della canzoni intendo che magari arrivo con gran parte del testo fatto o una linea melodica con gli accordi ma chiaramente poi ci troviamo e uno dice “ho questa idea”, ci mettiamo lì, la suoniamo poi arriva un altro “io farei questo, io qua farei quest’altro…”. Così facendo si valuta tutti insieme, si pensa, si dice “questo sì, questo no” e in questo senso hai proprio ragione, siamo molto democratici e ciò lo trovo molto bello; è una cosa che in prima persona ho sempre ricercato in un gruppo ed è un aspetto anche che vedo sempre meno in giro visto che di solito il focus è sul frontman, sul solista. A me piace che anche nel momento della creazione arrivino apporti da più parti, poiché in qualche modo rendono la creazione più imprevedibile anche per me. L’idea principale nasce in un modo che infine, rivista tutti insieme, diventa ovviamente una cosa diversa, nuova, che se fosse dipesa esclusivamente da te magari non sarebbe esistita e questo è il bello della musica, dell’arte, di ogni creazione.
Nel disco hanno il loro spazio la batteria, le chitarre, la tastiera, le voci, siete tutti abili musicisti quindi in questo modo mi sembra che ognuno di voi si senta valorizzato, anche questa cosa immagino sia voluta. Quanto giova al gruppo e alla buona riuscita di un disco?
Dipende da cosa un artista o un gruppo vanno ricercando. Da quel lato lì sai io cerco sempre di fare grande attenzione a quando far venire fuori uno strumento, ma in studio tutti in fondo vogliono questa cosa e ci lavoriamo su tanto per arrivare a una buona riuscita. Magari mentre si suona una parte diciamo “qua facciamo la risposta di basso alla voce, lì aggiungiamo un intervento di batteria, oppure una seconda voce”, sono tutte cose che escono un po’ a tavolino un po’ provando, poi tu decidi di tenerla o di lasciarla, è un processo creativo e dinamico.
Voi avete trovato un vostro stile che è particolare soprattutto in questa epoca qua, quindi non vi offenderete se vi dico che sembrate un gruppo d’altri tempi con questo tipo di approccio e questa musicalità; perciò volevo chiedervi: quali sono i vostri artisti di riferimento?
Stilare proprio una lista dettagliata è difficile, siamo in cinque teste e sarebbero tantissime le influenze da citare, però sicuramente ci metto tutto il cantautorato perché nonostante poi col tempo vi ci siamo discostati quel mondo ha lasciato un’impronta, poi il prog sicuramente ci ha segnato negli ascolti perché per un periodo un po’ tutti quanti siamo stati belli dentro in quell’area, intendo il prog classico delle origini più che i vari sviluppi le sue contaminazioni; dopodiché tutto il rock classico: io stesso ho iniziato a suonare perché mi sono innamorato dei ritmi e della chitarra degli AC/DC per esempio; oppure i grandi dell’hard-rock come i Guns N’Roses e altri ancora, poi voglio aggiungere (e questo lo puoi scoprire anche dall’utilizzo delle voci) quanto per noi tutti sia stata una grande sorpresa scoprire il mondo dei Beach Boys, questo modo di fare pop con i cori e le armonie vocali che si incrociano, pura magia sonora! Sono esperienze che ti aprono degli squarci su altri mondi che probabilmente non sono quelli a te più consoni, però è bello fondere questi due poli, il rock ‘n’ roll con il pop più celestiale, il profano con qualcosa che invece ha un che di sacro.
E tra i contemporanei c’è qualcuno che apprezzate come percorso, anche se magari è un po’ lontano come stile dal vostro?
A me e non solo a me piace tanto Andrea Laszlo De Simone, mentre in ambito mainstream devo dire ad esempio che ai tanto chiacchierati Maneskin rispetto a tanti altri gruppetti sulla scena riconosco almeno un genuino spirito rock, poi per recente io magari ho in mente dei nomi che sono in giro da 20 anni, perché se devo vedere all’oggi è difficile per me avere punti di riferimento: adesso si punta su generi come la trap.
Ecco, volevo arrivarci, io vi sento molto lontani come attitudine da quel mondo, possibile che nel panorama attuale non vi sia il giusto spazio per proposte diverse, come può essere la vostra?
Io mi sento lontano dalla galassia trap come sensibilità, da una parte invece mi sento vicino più all’hip hop ma a mio modo di vedere la trap ha poco a che vedere con l’hip hop quello più classico. Quello mi piace molto e scoprirlo è stata una cosa bellissima, approfondire ad esempio nomi come i Sangue Misto o i Colle Der Fomento è stata una rivoluzione anche per il mio modo di scrivere, che in realtà per adesso ancora non si è visto molto ma in alcuni brani nuovi che vorremmo registrare forse qualcosa uscirà fuori in questa direzione, influenzato da questo mondo. Vedi, adesso è diventato mainstream pop proprio il genere trap quindi vengono costruiti degli schemi anche un po’ ripetitivi e “commerciali”, senza dare con questo termine una connotazione necessariamente negativa ma è innegabile che tutto diventa funzionale se devi vendere per forza. Perciò ti ritrovi a dover suonare così, rispettando tutta una serie di parametri e caratteristiche che, se ci fai caso, è ciò che senti maggiormente nelle radio di adesso e che essendo ripetitive sono anche per me meno appetibili da ascoltare.
Mi dicevi ad inizio intervista che con le nuove canzoni anche gli altri componenti hanno iniziato a scrivere di più, significa che i tuoi compagni hanno preso maggior consapevolezza?
Si, assolutamente, anche se in realtà ad esempio già un brano presente in “Ultrapop” (“Autoblu”) è stato scritto da Alfio (mio fratello), quindi qualcosa arrivava anche da altre penne però adesso in particolare ci sono diversi brani, diverse idee, che stanno giungendo dagli altri, da lui come da Besso (Matteo Bessone, l’altro chitarrista).
E per te è arricchente questa cosa?
Per me sì, è arricchente e aggiunge anche varietà! Io in prima persona ricerco la varietà nella scrittura perché mi piace anche mettermi alla prova con qualcosa di diverso.
Beh, con questo album direi che c’è proprio della varietà anche negli arrangiamenti, ci sono degli inserti ska, dei momenti reggae, altri di rock’n roll quasi puro e quindi questo termine ultrapop non è casuale: è un album pop, questo è sicuro, ma è anche un album rock, quindi con “Ultrapop” che significato volevate lanciare esattamente?
“Ultrapop” uno lo legge e pensa voglia dire “esagerato”, si può interpretare così per carità ma noi lo pensavamo nel senso latino del termine, che vuol dire “oltre”, cioè è un modo di approcciarsi al pop ma andando oltre, non fermarsi lì ma cercando di attraversarlo rimanendo noi stessi, non farci inscatolare in schemi precisi; qualcuno potrà pensare che il nostro stile è riconoscibile perché è poco ortodosso, ma a noi piace la varietà, ci piace la ricerca, ultrapop è andare oltre l’incasellamento, come invece di solito nel pop si tende a fare. Avere una propria identità vuole dire che si è sempre se stessi anche facendo cose diverse, in fondo gli strumenti sono sempre suonati da noi, i testi sono i nostri, le voci anche, è una dimostrazione pure del fatto che una persona può avere anche tante idee diverse e non per forza bisogna adagiarsi in un solo mondo.
Riguardo l’attività live da parte degli addetti ai lavori, degli uffici stampa ma anche e soprattutto dagli stessi artisti si sente parlare di una certa emorragia, di pochi locali dove suonare e in generale di disinteresse nei confronti delle novità. A parte l’attività di busking che è molto particolare di suo, mi accennavi invece che è stata un’estate ricca di concerti, quindi per voi che siete una band emergente cosa rappresenta avere la possibilità di suonare? Siete soddisfatti di quello che ottenete dal pubblico, quando siete su un palco con gli strumenti siete concentrati su di voi oppure ci tenete a cosa succede sotto il palco?
Ci facciamo sicuramente caso alla risposta della gente, sei ovviamente concentrato a suonare ma in qualche modo lo spettacolo lo si fa insieme anche al pubblico, che funge da autentico carburante per noi. A me pare che la risposta del pubblico sia bella, e che sia un fattore positivo che alla fine dei nostri concerti le persone ci vengano a fare i complimenti, dicendo quanto siano state bene. E’ una soddisfazione enorme vedere che una cosa funziona in presa diretta, che la gente si lascia andare ai nostri concerti e quindi questa emorragia di cui parli io credo che riguardi altre cose. Per la mia esperienza col pubblico io posso darmi delle risposte alla tua domanda che saranno molto diverse da chi per esempio ha i locali da gestire, da chi deve organizzare, da un direttore artistico che deve far combaciare aspetti differenti. Se posso fare un appunto sull’argomento io penso che da quel lato lì si abbia paura di far sentire delle cose nuove, di non ancora conosciuto dal pubblico, mentre dall’altra parte il pubblico sembra più pronto di quello che generalmente si pensa. Lo vedo anche quando facciamo i buskers, voglio dire lì sei proprio a un livello zero col pubblico, eppure risponde bene veramente anche facendo in strada pezzi originali mai sentiti prima, e questo ci accade anche quando hai un service e situazioni di feste ancora di più. Secondo me più che poca disponibilità finanziaria c’è come ho detto poco coraggio, perché ormai siamo abituati a un sistema che in qualche modo più che cercare di far emergere dal basso, va a pigiare dall’alto e lo impone alle masse.
Insomma, si va sul sicuro con gente uscita dalla tv oppure si opta per le cover-band; che poi anche voi all’inizio ne proponevate ma poi il focus l’avete spostato su altro, mentre magari puntare più sulle cover a tanti gruppi ha portato e porta più vantaggi. Voi però siete contenti della strada che state percorrendo da quando avete iniziato a comporre pezzi originali?
Noi abbiamo fatto una scelta di campo precisa che portiamo avanti con convinzione, da un po’ non suoniamo più nessuna cover però non dobbiamo nemmeno diventare schiavi di questa idea, se una sera abbiamo voglia di fare una cover magari di un pezzo ricercato e poco conosciuto, perché non dovremmo farla? Se ci viene voglia di fare un omaggio possiamo benissimo farlo perché ha un senso in quel momento ma noi ormai tendenzialmente facciamo solo la nostra roba. Non è semplicissimo, ne siamo consapevoli, magari ci sono zone d’Italia più recettive della nostra, ma noi andiamo avanti sperando di migliorarci sempre di più e di conquistare più pubblico. Ammetto comunque che ci sono delle realtà che ci danno forse più credito perché magari ci hanno conosciuto prima mentre facevamo cover: la gente ci apprezzava e quindi anche adesso che abbiamo cambiato ci richiamano a suonare. Succede anche questo e noi siamo felici di dimostrare alla gente che siamo sempre noi e che possiamo fare cose nostre che piacciono, però sicuramente è vero anche quello che dici tu, tanti locali preferiscono proporre le cover-band rispetto a chi fa cose proprie, d’altronde è una scelta decisamente meno rischiosa.
Come è stato accolto finora il disco a livello di recensioni, riscontri e quant’altro?
Secondo me è stato accolto bene, recensioni ne sono uscite tante e quasi tutte positive, tutte che in sostanza hanno riconosciuto non dico l’innovatività, perché nessuno inventa niente, ma forse il fatto che sia fuori dal panorama del momento, poi che sia un ascolto godibile, piacevole e (perché no?) anche allegro: ecco questa cosa viene trasmessa e a noi fa piacere. Ultimamente negli ascolti mainstream siamo abituati a vibrazioni di altro tipo, più “sconsolate” mentre il nome degli Autoradio è stato visto da alcuni come una ventata di freschezza per fortuna, poi ci stanno anche delle critiche qua e là ma ok, fa parte del gioco e lo accettiamo.
Ultima domanda, nel confermare che sia anche per il sottoscritto un ascolto piacevole e gradevole, volevo chiederti: se uno volesse approcciarsi alle canzoni degli Autoradio, quale ritieni sia allo stato attuale tra le dodici di “Ultrapop” quella più esemplificativa? So che per un autore è difficile fare figli e figliastri, ma c’è una canzone in particolare che potrebbe fungere da vostro biglietto da visita, con cui ti sentiresti di dire: noi siamo gli Autoradio e facciamo questa cosa qui?
Eh sì, è difficile in effetti, però io forse una ce l’avrei, al di là del fatto che abbiamo tante canzoni che di primo acchito potrebbero essere considerate radiofoniche (se vogliamo usare un termine che ovviamente poi nella pratica non è forse così adatto): mi riferisco all’ultima traccia di “Ultrapop”, vale a dire “Io ti comprerei”. Nomino questa perché è una cosa poco sentita nel pop quello di affidarsi a una coda strumentale, con un crescendo di cui sono molto soddisfatto perché lì si sente proprio che è una cosa suonata, incastrando nel climax musicale i vari strumenti: è un esempio da un lato di melodia cantabile ma dall’altro da’ molto spazio appunto alle parti di ognuno. Quindi credo sia ben rappresentativa della nostra cifra stilistica.
In effetti è uno degli episodi più interessanti del disco, una canzone completa, dinamica con questo finale in crescendo che la fa spiccare in mezzo ad altri momenti più immediati e orecchiabili.
Già, poi se mi concedi un altro titolo, dovendo invece consigliare una canzone rapida e indolore da ascoltare al volo allora opto per “Biglietto per Madrid”.
La lunga chiacchierata con Alessandro, voce e chitarra degli Autoradio, si chiude qui, in attesa di poterli sentire sul loro territorio migliore, quello del live dove i cinque riescono a sprigionare tanta energia e genuina passione.