L’ennesimo viaggio retromaniaco nelle sonorità pop anni ’80 viene offerto dai Wild Nothing, band statunitense capitanata da Jack Tatum. Le undici tracce di “Hold”, un disco nato nel pieno della pandemia, presentano atmosfere assai suggestive ma non riescono mai a incidere in maniera netta. Le canzoni sono dotate di grande fascino, ben prodotte e arrangiate con gusto e raffinatezza. In superficie sono immacolate; nel profondo, però, sono semplici giochi di stile che Tatum sfrutta per mettere in luce una maturità artistica sì raggiunta, ma non esplosa.
Il disco è gradevole, sofisticato e sonicamente delizioso. Sembra che i dettagli stiano davvero a cuore ai Wild Nothing di “Hold”, considerando la grande attenzione riservata alla pura essenza del suono: incredibilmente ricco ma mai esagerato, seppur carico di finezze di ogni sorta. Ritmo e melodia hanno la stessa importanza in un ambiente musicale a trazione elettronica. Le chitarre non mancano di certo, ma l’ago della bilancia tende in maniera pesante verso la strumentazione digitale.
I Wild Nothing utilizzano in maniera creativa e minuziosa i sintetizzatori, i campionatori e le drum machine con l’obiettivo di applicare un velo di plastica sulle loro tradizionali sonorità dream pop. Cedono al fascino delle tecnologie restando umani, come ben dimostrano in brani di grande intensità dominati dall’emozione (“The Bodybuilder”, “Presidio”, “Prima”).
Jack Tatum, padrone unico del progetto dagli esordi nell’estate del 2009, è un autore e produttore molto sensibile che antepone il gusto a qualsiasi altra cosa. In “Hold” si avverte in maniera chiara il desiderio di spingersi verso lidi più commerciali, facendo spesso e volentieri il verso ad affermate superstar come The 1975. Nonostante questa specie di svolta mainstream, i Wild Nothing riescono nel miracolo di non calcare mai la mano per offrire una visione tutto sommato moderna e sobria del pop anni ’80 di Serie A (in primis Peter Gabriel e Kate Bush, citati dallo stesso Tatum, ma anche qualche eco di Prefab Sprout, Scritti Politti, The Blue Nile e Hall & Oates nei momenti più radio-friendly).
Come già scritto, il disco si fa apprezzare più per la forma che per la sostanza. In questo caso, però, non si applica l’espressione “tutto fumo e niente arrosto”. Perché i Wild Nothing sanno muoversi con eleganza sulla linea di confine che divide il dream dal synth pop offrendo così un’esperienza di ascolto stimolante e variegata, frutto di molteplici influenze che vanno dal mai troppo celebrato sophisti-pop britannico all’acid house (vedi le fitte trame ritmiche della ballabilissima “Headlights On”), passando ancora per lo shoegaze (le chitarre sature alla My Bloody Valentine di “Alex”) e l’indie rock più sbarazzino e solare (la deliziosa “Dial Tone”).