Credit: Sven Mandel, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Di Enrico Sciarrone

Ormai ci siamo. Credo siano tornati quasi tutti. Al netto di chi è deceduto (ma ci sono sempre i compagni di ventura) e di chi orgogliosamente resiste (pochi ma ancora per quanto ?) il ritorno live dei gruppi che hanno significativamente segnato un epoca musicale è quasi completo, quasi da diventare un fenomeno a sé. Fenomeno che attraversa tutti i generi musicali, non ultimo quella scena gotica degli anni ’80, data per morta ma antesignana e fonte d’ispirazione per generazioni di gruppi a venire. Un destino comune contraddistingue questi gruppi goth rock, un passato glorioso, una produzione importante, dischi spesso memorabili, una vena creativa pressoché esaurita da tempo, un presente pieno di incognite ed un interrogativo che li perseguita “Ma cosa avranno ancora da dire?

Perché è naturale e legittimo che al riapparire sulle scene ci si auspichi un vero ritorno non solo live ma anche a livello di produzione che quasi mai avviene. All’ennesima riproposizione del gruppo che fu, un avvertenza corre d’obbligo a tutti coloro che vi si approcciano, “Non crearsi aspettative, illusioni o false speranze, il prodotto è quel che è oggi, prendere o lasciare“. Ed è con questa consapevolezza che ci si è approcciati alla prima delle due date live dei redivivi Sister of Mercy presso il Live Club di Trezzo sull’Adda.

Fuori la tempesta Cirian, che imperversava sulla regione quella sera, ha sicuramente influito sull’affluenza del pubblico, numeroso ma forse inferiore alle aspettative, comunque a suo agio in una location, a mio parere, strepitosa per accessibilità, servizi e acustica perfetta. Ed è in questo contesto che appena dopo le 21 si sono palesati Andrew Eldritch e i suoi sodali ad accompagnarlo.

Già storia travagliata e controversa, quella dei Sister, a 33 anni dalla loro ultima fatica ufficiale discografica, un gruppo non ha mai avuto una continuità di formazione, sempre alla ricerca di un punto di equilibrio attorno alla figura spesso problematica e mal disponente di Eldritch. Accanto a lui una sezione di chitarre, Ben Christo, già da qualche anno a suo fianco ed una turnista (forse anche vocalist) come la giovane Kai, il tutto supervisionato da Chris Catalyst vero e proprio curatore dei campionatori e gestore della creatura ritmica Doktor Avalanche. La serata è filata spedita e serrata, l’ensamble ha funzionato ma soprattutto Eldritch è stato in gran forma: la sua voce cavernosa e profonda non conosce i cedimenti del tempo, padrone della scena, ha incentrato la sua performance sulla produzione che sente più sua, pescando a piene mani dagli album più oscuri come “Floodland” (“Lucretia”, “This Corrosion”) e soprattutto “Vision Thing” (l’iniziale “Doctor Jeep”, “Detonation Boulevard”, “Ribbons”, “More”, “I was wrong”), tralasciando (volutamente?) il primo album” First Last and Always” forse troppo legato a scorie e dissidi passati con gli ex compagni Hussey/Adams.

Fin qui era quello più o meno che ci aspettavamo.

Poi va detto che buona parte del concerto ha visto anche la proposizione di diversi nuovi brani veramente interessanti e intriganti (“I will call you”, “Caligula”, “Susanne”, “Crash and Burn On the Beach”) composti negli ultimi anni, presenti on line sulle varie piattaforme ma mai incisi per la nota separazione dalla loro casa discografica Time Warner e successiva scelta di non aderire ad etichette indipendenti. Auspichiamo che il tutto veda finalmente una luce ufficiale.

Tutte luci? No anche qualche ombra. Il gruppo è ben rodato anche se talvolta si ha quasi l’impressione di assistere all’esibizione di una cover band di alto livello che ha la fortuna di suonare con il proprio idolo all’interno di un dj set, in cui oltre alla presenza di una drum machine, sono purtroppo campionate anche tutte le linee di basso e anche alcuni cori preregistrati. Questo inevitabilmente toglie un po’ di genuinità, di forza alla performance live ma non la ridimensiona. Certo, in alcuni brani come “Doctor Jeep” la chitarra non è efficace come nella versione integrale, la monumentale “Maria”n non ha la consueta sontuosità e in brani come “This Corrosion”, “Lucretia/Dominion” manca terribilmente il contributo vocale di Patricia Morrison. Detto questo, è innegabile che in alcuni tratti la magia sia emersa suscitando l’emozione dei presenti che hanno dimostrato di ben apprezzare l’impegno e l’anima profusa.

Dopo un solo bis che ha riguardato i brani appena citati, il tutto si è chiuso in un ora e diciotto minuti senza che nessuno del pubblico fiatasse o reclamasse. Quasi come se fosse implicito che di più dai Sister of Mercy non si poteva pretendere.