I Leatherette saranno pure di Bologna ma, per citare una celebre e frequente lamentela dello Stanis La Rochelle di “Boris”, nessuno al mondo potrebbe mai accusarli di essere troppo italiani. Il quintetto felsineo, infatti, sembra quasi ripudiare del tutto la tradizione musicale nostrana per abbracciare un sound alquanto originale ma legatissimo alla lezione del post-punk che più internazionale non si può, con evidenti richiami ai maestri inglesi (Gang Of Four) e statunitensi (James Chance & The Contortions e la no wave più in generale).

Credit: Silvia Violante Rouge

“Small Talk”, il loro secondo album, è stato registrato dal vivo in Emilia Romagna, mixato in Inghilterra e masterizzato in America. Un disco dal fortissimo gusto cosmopolita che contiene dodici tracce caotiche ed eccitanti che sembrano sbucar fuori da una metropoli impazzita.

Sulla cima di una torre di Babele fatta di suoni spigolosi e abrasivi si trovano i Leatherette – vulcanici e totalmente disinteressati alle mode del momento, seppure non indifferenti al fascino del pop più genuino e semplice. Stando alle parole del sassofonista e tastierista Jacopo Finelli, la band ama tanto lo schema della canzone tradizionale (strofa/coro/verso) quanto le sonorità dure, atipiche e strane: «quando scriviamo brani pop spesso arriva un momento in cui vogliamo fare a pezzi tutto e rompere le regole. È questa tensione che ci spinge a esplorare entrambi i lati».

Nel disco le due anime dei Leatherette si fondono per dar vita a una grande festa a tema dance punk in cui chitarre taglienti e fiati deraglianti aprono squarci di follia in un contesto musicale che, in realtà, non ha nulla di particolarmente innovativo. Il gruppo rimastica brandelli del post-punk anni ’70 (si avvertono influenze di Pere Ubu e The Fall) e del noise rock anni ’90 (The Jesus Lizard) e sputa fuori schegge di musica mutante e moderna, impreziosita da inaspettati toni jazz ma a suo modo di facile ascolto, caratterizzata da hook di facile presa e ritornelli depravati ma orecchiabili.

Dietro muri di acida distorsione e frequenti sconquassi in salsa free jazz si nasconde un inatteso amore per la melodia. I Leatherette sfiorano l’avanguardia ma, alla fine della giostra, ciò a cui puntano davvero è il cuore del grande pubblico. “Small Talk” non sarà l’ariete che sfonderà le porte del successo ai cinque bolognesi ma sicuramente permetterà loro di proseguire quel percorso fortunato aperto appena un anno fa dal debutto “Fiesta”, già capace di attrarre numerose attenzioni a livello internazionale (dalla stampa di settore fino alla trasmissione di Iggy Pop su BBC Radio 6 Music).

La qualità di certo non manca in questo progetto poco italiano ma ancora troppo legato ai modelli stranieri. L’accento britannico del pur bravo cantante Michele Battaglioli, tanto per fare un esempio, ha un che di affettato: il suo modo di cantare ricorda un po’ troppo da vicino quello di Joe Talbot degli Idles. La via imboccata è senza ombra di dubbio giusta ma, almeno per il momento, manca la spontaneità necessaria per fare il vero grande salto.