La messinese Giuseppina Borghese, splendida autrice di “A Manchester con gli Smiths – un walkabout musicale“, è reduce da una sorta di neverending tour, come fosse una rockstar, che l’ha portata a presentare il suo libro su e giù per la Penisola, raccogliendo ovunque consensi ed emozioni.
Dopo qualche bello scambio sui social è venuta l’idea di saperne di più della sua esperienza e lei ha risposto “presente”, aprendosi con grande generosità in una lunga chiacchierata telefonica.
Ciao Giuseppina, buongiorno, la gente ha imparato a conoscerti come persona dinamica, aperta a varie attività e con diverse attitudini. Trasmetti un senso di felicità ma tu da adolescente sognavi tutto questo? Immaginavi di ritrovarti a questo punto della tua vita a fare quello che stai facendo?
Grazie! Guarda, potrei dire che a me piace ragionare per colori riferendomi alle mie varie fasi esistenziali. Quando penso alla mia vita, da ragazzina, in quella prima parte più intensa quando ci formiamo e capiamo cosa ci succede intorno, nel periodo tra le scuole elementari prima ancora dell’adolescenza io vedo il nero: so che detta così potrebbe sembrare terribile – “oddio, questa ha avuto un’infanzia brutta!” – invece no, tutt’altro, la mia infanzia è stata bellissima ma probabilmente allo stesso tempo fortemente influenzata da determinate letture e certe visioni cinematografiche.
Credo che l’immaginario delle persone venga molto plasmato da quello che vedono e sentono a quell’età e nel mio caso sono successe queste due cose che adesso ovviamente magari le carico anche di pathos, ma che in realtà furono molto determinanti in quello che è diventato appunto il mio immaginario. A 7 anni la lettura de “L’isola del tesoro” di Robert Stevenson, un romanzo che capirai è sì un libro per ragazzi ma si tratta di una lettura bella impegnativa, con uno scenario pieno di ubriaconi, pirati e quant’altro; la seconda cosa invece che mi ha molto influenzato è la visione nel ‘94 in vhs di un film uscito l’anno prima che è “Il corvo”, film maledetto con Brandon Lee che posso affermare sia stato il primo uomo di cui mi sono innamorata, come tante altre ragazze dell’epoca, e lì mi innamorai non solo di un’estetica, perché in seguito andai a recuperarmi la graphic novel di James O’ Barr, una favola gotica ma mi innamorai anche della colonna sonora che era stupenda: i Violent Femmes per dire li ho conosciuti lì, i Jesus & Mary Chain, i Cure…
Avevamo un tizio che stava in affitto giù da noi che aveva un negozio di dischi, mio padre mi diede i soldi e mi ricordo che il secondo album che comprai (il primo fu quello di Lene Marlin, in linea con i tempi, questa cantautrice norvegese), è stato quello degli Stone Temple Pilots con “Purple”; la cosa figa è che passavo in scioltezza da mondi musicali così differenti, e questo potrebbe già rappresentare la mia pluralità, quando non proprio la mia schizofrenia! All’età di 12 anni quello fu quindi il secondo acquisto, che giustifica una prima fase di colore nero perché c’è una sottotraccia gotica, nonostante io non sia mai stata una gothic girl e me ne vanto, non che abbia qualcosa contro ma non è la mia cosa però alla fine quest’anima ce l’ho avuta, anche se ero più attratta dal mondo blues rock che non dal grunge: sì, i Nirvana ok ma io trovavo più interessanti gli Stone Temple Pilots, che sentivo differenti, ci trovo del blues nella loro musica.
All’epoca sai è difficile immaginare come avresti voluto essere da adulta ma pensavo sin da allora all’idea del viaggio, di essere sempre da un’altra parte, di scoprire cose nuove: era già la mia fissa a 7 anni, collezionavo mappamondi, mi piacevano gli atlanti, le cartine geografiche, le bandiere… non avevo buona memoria visiva, per cui non le imparavo mai però mi piaceva conoscerle, scoprire le storie di questi Paesi, le capitali, vedere le tratte da un paese all’altro. Questo aspetto mi è rimasto tantissimo, ancora oggi appena posso, prendo un aereo e scappo ovunque.
Questo accadevi quando eri più piccola ma da adolescente poi come ti sei evoluta? Avevi le idee chiare oppure ci sono state delle deviazioni nel tuo percorso di crescita?
Qualcosa di oggi è rimasta perfettamente coerente con la me di quegli anni, su tutto l’amore per la scrittura. Da quando ho memoria scrivevo sempre, di ogni cosa, tenevo il classico diario dove annotavo tutto: le cose che volevo fare, che desideravo comprare, i progetti. Non posso dire che mi vedessi come scrittrice, mi immaginavo piuttosto una narratrice di viaggi, cosa che infatti poi a 19 anni è successa perché sono diventata giornalista, ho iniziato a scrivere su una rivista e a 21 dopo aver fatto la pratica ero ormai pubblicista.
Quindi la coerenza è rappresentata dalla scrittura, che era una componente di me già dai primi anni di liceo, per il resto invece come per tutte le persone tante cose sono cambiate, ma volendo associare un colore anche per la parte della me adolescente, allora dico blu oceanico, perché coincide con il mio animo esplorativo.
Ho cominciato in quel periodo a leggere tantissimo le riviste di viaggi e le riviste musicali soprattutto, fu per me una iper-scoperta: “Rockerilla”, “Rumore”, “Rolling Stone” quando ancora era cartaceo, “Blow Up”… “XL” meno, non perché fossi snob ma era già più commerciale, sì c’erano i fumetti ma non mi sono mai considerata un’appassionata. Oltre alle riviste però c’era di più, la mia fissa, il mio feticismo era Scaruffi!
Non fosti la sola, mi vien da dire, d’altronde la sua influenza è stata determinante in quel periodo, anche se poi a causa di alcune sue prese di posizione si sono create due opposte fazioni, tra chi lo chi lo amava e lo seguiva e chi invece lo considerava uno che le sparava grosse. In ogni caso, di certo è stato un precursore con la creazione di questo sito, no?
Tanti sono cresciuti così seguendolo a occhi chiusi: io però ho sempre avuto uno spirito profondamente critico, del tipo che lui segnalava delle cose e io me le andavo a comprare – forse stando ancora con i miei avevo più soldi di oggi e me li potevo spendere per le mie cose superflue -; ovviamente poi dopo l’ascolto su quei dischi mi facevo una mia opinione personale ed è successo che non mi trovassi d’accordo con lui su alcuni artisti, come i Wire.
Mi piaceva però quella cosa, molto tecnica, molto matematica (ché lui è un professore di matematica), proprio filologica di stare lì a compilare tutte queste schede; tu comunque andavi là, visitavi la sua pagina e ti trovavi delle cose che dapprima magari saltavo a pie’ pari ma poi andavo a recuperare altrove con delle letture più approfondite: sono gli anni in cui inizio a leggere “Post punk” di Simon Reynolds, fondamentale per avere un’idea della musica ed è lì che inizio a delinearmi un mio gusto personale.
Io ero molto orientata sul versante dream pop, che faceva emergere una vena malinconica a cui ero tendente: capii che la mia era un’anima dream pop, shoegazer una volta scoperti gli Slowdive ovviamente, i Blonde Redhead tantissimo (anche il loro nuovo disco, da poco uscito, lo trovo stupendo), ma pure nomi come A Place to Bury Strangers con quell’album omonimo che trovavo splendido, o The Magnetic Fields, con questo progetto di tre cofanetti “69 Love Songs”, che mi segnò profondamente.
La conoscenza degli Smiths è stata una sorta di epifania, come accaduto a me con i R.E.M. per cui sarei voluto andare ad Athens, o eri già sintonizzata con certa musica prima di fare il fatidico incontro con questo ragazzo misterioso evocato nel tuo libro?
Ero già in una dimensione per cui la musica era per me fondamentale, fai conto che io da quando mi sveglio la mattina a quando vado a dormire non c’è un minuto della mia giornata in cui non ascolti musica. C’è questa cosa, che ritengo molto cafona, oltre che scorretta, di ridurre all’autismo il fatto di isolarsi assorbiti dalla musica, eppure a me questa simbiosi che provo mi da’ un senso di protezione, mi sento come in una bolla e mi accompagna ad esempio se devo scrivere ma direi pure in qualsiasi cosa io debba affrontare.
Ecco, ero già su questa dimensione, ma gli Smiths li incontro proprio come ho scritto nel libro. Poi io faccio questo parallelismo durante la narrazione, la persona a cui mi riferisco è stato il grande amore, colui che dici “è lui!”: quella persona mi ha fatto scoprire questo gruppo che io in tutti i precedenti incontri avevo magari sì distrattamente ascoltato – chessò? “This Charming Man”, qualcosa così – ma non ero entrata in quella conoscenza filologica, che un po’ hanno tutti quelli che ascoltano gli Smiths, per cui vuoi sapere ogni singolo verso, tradurre tutto…
Il libro contiene in se’ quindi una micro e una macro-storia, la macro-storia è quella ovviamente del gruppo che si sviluppa nella città; la micro invece è la storia di due ragazzi che a un certo punto si chiudono in questa stanza e scoprono un mondo musicale, e l’incontro con gli Smiths è diventato l’inizio di quella loro storia! Un’epifania, certamente, lì ho capito cosa fosse l’ossessione (e io tendo a esserlo!) e la mia vera ossessione negli anni a venire sono rimasti sempre loro, a differenza di altri artisti che amavo ma dai quali prima o poi mi straccavo (come possono essere i Blonde Redhead o i Pavement).
Gli Smiths rimangono immutati sempre dentro di me, sono quella luce che non si spegne mai, rimane così, questa cosa mi ha molto colpita!
L’incontro con Morrissey lì nel libro lo descrivi come fosse la cosa più naturale del mondo, ma com’è stato realmente? Quando ti accadde eri già sintonizzata, immersa nella loro musica eppure non resti paralizzata ma addirittura ci parli…
Quando ho firmato il contratto e ho deciso di scrivere questo libro, l’unica cosa di cui ero certa è che volevo iniziare dall’incontro con Morrissey perché è una cosa talmente cinematografica! Invece è pura cronaca, niente di invenzione.
Mi ero innamorata in fondo solo l’anno prima, e mi faceva strano oggi come allora pensare a come sia avvenuto tutto così per caso, quando c’è gente che è vissuta e morta nella speranza di vedere Morrissey! Io invece me lo trovo a un tiro di schioppo, ovviamente tremavo ma è stato tutto così veloce che mi sono detta: “qui è questione di prendere o lasciare!”; perciò, sicura di fare una figura di merda, tra l’altro allora parlavo molto male l’inglese – ero molto giovane, 19 anni -, mi sono lanciata come quando ti lanci nelle cose e sei incosciente ed è stato bellissimo nella sua naturalezza.
E qua va svelata una cosa, in quanto si è rivelata davvero la sua natura controversa: molti lo definiscono una iena, ma in realtà avendoci parlato e discutendo con persone che hanno avuto modo di conoscerlo, lui ha innata questa sorta di animo infantile, molto dolce.
Ricordo bene quel tipo di dolcezza in quell’occasione e la naturalezza con cui parlava con una ragazza di molto più giovane di lui, chiaramente in una posizione di adorazione – gli avrò detto non so quante volta “ti amo!”, perché sai, per quanta dignità io possa avere ma puoi capire c’hai Morrissey davanti a 19 anni -, ecco, aveva quel senso di protezione nei miei confronti, di dolcezza tipico dei bambini, con uno sguardo timido e dolce.
Quindi conoscere il tuo mito non ti ha affatto delusa?
“Never meet you myth” come dicono gli inglesi? No, io ho conosciuto il mio mito ed è stato bellissimo! Poi, come scrivo nel libro in quella prima parte, abbiamo anche camminato nella stessa direzione senza più parlarci, perché le cose da dirci in un certo senso erano finite ma lo abbiamo fatto con estrema dolcezza e naturalezza e questo rappresenta secondo me (e lo dico anche nel libro) il senso dell’esperienza stessa degli Smiths, ciò che provano le persone che gli si avvicinano.
C’è questa liturgia di salire sul palco e prendersi un “pezzo” di Morrissey e “portarselo a casa”, che sia una camicia, un oggetto… E’ un rituale che non è paragonabile a nessun’altra celebrità nel mondo della musica; mentre Madonna ad esempio sta lì tipo una Dea e tutti che la venerano, invece negli Smiths questo salire sul palco, abbracciare il loro leader, stare lì, in realtà è come farlo con una persona a te molto intima, senza quella sorta di riverenza che puoi avere verso il “mito”.
Gli Smiths hanno provato a normalizzare il rapporto tra l’ascoltatore, il fan e la band, riporto le parole di Johnny Marr che spiega che quando gli Smiths sono nati volevano raccontare quello che loro stessi provavano ai loro coetanei, a livello di parità: questo aspetto io l’ho molto visto, molto sentito anche nel mio incontro con Morrissey.
Credo di poter affermare con certezza che il tuo libro sia quello che ha avuto più di successo tra quelli inseriti in questa interessante collana della Giulio Perrone Editore. Si avverte quanto tu ci abbia messo del tuo vissuto e questo feeling con il gruppo e con i lettori che si è creato nei vari incontri è difficilmente riscontrabile in altre opere. Ti sei documentata a dovere, hai conosciuto a fondo la città di Manchester ma c’è qualcosa in particolare che ti ha colpito, dove hai percepito qualcosa di profondo? Un luogo del quale avevi amato la storia ma che visto e toccato con mano ti ha stupito ancora di più?
Grazie delle tue parole! Premetto che avevo due grandi paure: scrivere qualcosa di un gruppo del quale si era già scritto tutto un migliaio di anni fa, e nel fare questo risultare superficiale. Ecco, nonostante riconoscessi la prima obiezione, di sicuro non avrei però trattata la materia in maniera superficiale, visto quanto in primis per me gli Smiths significhino tantissimo; quindi occorreva per quel che mi riguardava raccontare la città e gli Smiths a un pubblico che aveva una doppia faccia: quelli che non gliene frega niente e quelli che li amano.
Un’operazione molto difficile in entrambi i casi se ci pensi, perciò l’unica cosa che ho pensato era di raccontare bene Manchester, trovando in ogni quartiere – perché poi ogni singolo capitolo è l’attraversamento di un quartiere – qualcosa che potesse raccontare a sua volta gli Smiths.
Tante sono le cose che mi hanno colpito nel profondo, in pratica tutte le storie delle persone che ho incontrato che avevano delle vite, che hanno delle vite, e che un po’ per ragioni anagrafiche o per altri motivi apparentemente potevano avere nulla a che vedere con gli Smiths, eppure come per magia vi erano per strani motivi strettamente connessi, come si trattasse di una comunità.
Poi una cosa strana su cui riflettevo quando ero stata là, e che mi colpiva veramente, era la somiglianza nell’indole con le persone della mia Terra, la Sicilia. Ad esempio quando parlo dei mancuniani, di Marvin, questo uomo che compare nel capitolo dedicato alla prigione di Strangeways, con questa sua apparenza un po’ rude da criminale, io ho avuto anche un po’ paura perché giravo sola e il posto era abbastanza spettrale, e quell’episodio mi ha colpito in positivo, mi ha fatto sorridere.
Poi c’è un’altra cosa che mi ha molto colpito che mi ricollega a quello che dici, e riguarda ciò che è successo dopo la pubblicazione, perché io davvero non mi aspettavo di girare così tanto, sono onesta.
Mi hanno invitato dappertutto e cominciare ad andare nei Festival, nelle librerie, nelle città mi ha fatto incontrare due tipologie diverse di comunità; chiaramente prima quella degli smithsiani e delle smithsiane, che è bellissima, numerosissima e immortale, ma c’è anche una comunità laterale formata da quelli che non sono proprio fanatici, ma sono curiosi, interessati, e lì davvero immagino che servirebbe scrivere un altro libro per raccontare di queste comunità, una storia nella storia perché ognuno aveva qualcosa da aggiungere a questo grande puzzle che era appunto la storia degli Smiths.
Ti faccio un esempio molto spicciolo: in ogni città italiana dove sono stata, a eccezione di qualcuna, c’è sempre stato qualcuno che veniva o con una “reliquia” di Morrissey o con il biglietto di Tendastrisce, che fu l’unica data degli Smiths in Italia, come per dire io c’ero!
Un po’ come essere certificati e far parte degli eletti del gruppo?
Esatto, e questo però mi ha dato il senso di materia viva, non è una cosa da museo che sta lì, è qualcosa di molto vivo e che ancora oggi suscita tantissime emozioni nelle persone: questa è una cosa che mi ha molto colpita, non mi aspettavo veramente tutta questa partecipazione.
E ti aspettavi quel tipo di soddisfazione, di ritrovare cioè negli occhi delle persone, nelle emozioni delle gente, un rimando del loro vissuto, al di là di aver apprezzato il tuo libro?
No, ed è stata una cosa veramente potente per me! Ti faccio alcuni esempi, visto che certi incontri in particolare mi hanno molto toccata, mi hanno scossa: una volta è venuta una ragazza che aveva il padre in ospedale gravemente malato, lui fan degli Smiths aveva letto il mio libro e voleva assolutamente che la figlia mi incontrasse per portargli il libro con la dedica; situazioni insomma anche strazianti da una parte ma dall’altra vi erano magari persone con i figli piccolini che stanno iniziando a fargli ascoltare le canzoni del gruppo.
Come faccio io con mio figlio con alcuni dei miei gruppi preferiti, e difatti Luigi ama già “Coffee and TV” dei Blur. Tornando a quei giorni, ricordi altre situazioni curiose scaturite da queste differenti tipologie di umanità smithsiane?
Ce ne sono tante, mi ricordo storie di padri che facevano il tifo per Robert Smith e che quindi boicottavano le figlie che compravano “Stangeways, Here We Come”: non ho potuto far altro che cazziarli malamente, ah ah ah… Queste storie di conflitto che riguardano sempre padre e figlia, divertente direi!
Invece la gente di Manchester di cui accennavi prima, che è così tanto legata al proprio luogo, un po’ come gli Smiths, ma mi vien da dire tutte le band di qui, tipo gli Oasis che mai sarebbero potuti nascere a Londra: mi sembra che tu ti sia sentita a tuo agio in questa città, nonostante uno se la immagina totalmente differente dalla Sicilia. Leggendo anche il libro di Johnny Marr sembravate due persone che hanno lo stesso feeling con la città, ovviamente lui ce l’ha connaturato e tu acquisito. Come ti spieghi questo senso di attaccamento?
Sì, ammetto che sia così e questa cosa l’ho proprio percepita girando per la città. Tuttavia sono rimasta sorpresa a rendermi conto di quanto io mi sia sentita in questo modo, perché in fondo ho fatto tre viaggi in tutto, uno molto breve (il primo); poi quando ho firmato il contratto ne ho fatti due più lunghi perché dovevo chiaramente incontrare più gente, essere lì e ti dico la verità: quando sono partita avevo un grande pregiudizio sulla violenza che caratterizza questo luogo – ché poi in realtà pregiudizio neanche troppo perché Manchester in realtà è una città estremamente violenta – , e pertanto la mia paura di persona che si muove sempre da sola era legittima, ma poco alla volta ho superato tutto questo.
All’inizio volevo stare nei luoghi più possibile sicuri, fare magari un po’ più di attenzione a dove passavo, ma pian piano la paura si è dissolta. Ovviamente non ti sto dicendo che Manchester non sia violenta, ho avuto la prova di questo in mille occasioni e anche la loro lingua, il loro modo di parlare, è un inglese quasi incomprensibile, ragion per cui non è che all’inizio ti senti proprio a casa, però c’è questo spirito, un senso di assoluta disponibilità che forse a Londra o anche in altre parti del Regno Unito è più difficile trovare, e che è dato secondo me da una parola che è: “senso di comunità”.
Io torno molto per esempio sulla storia politica della città, torno sulla storia della rivoluzione industriale, i sindacati che nascono a Manchester, il movimento delle Suffragette, il senso di mettersi insieme! Loro utilizzano questa frase: “la forza attraverso l’unità”, e infatti l’ape operaia è anche il loro simbolo, se stiamo insieme siamo una forza, possiamo in qualche modo contrastare le robe brutte.
Il senso di comunità è molto forte a Manchester e questa cosa ti da’ anch’essa un senso di protezione malgrado la violenza, la gentrificazione che purtroppo avanza in maniera sempre più veloce per cui luoghi come lo “Star & Garter” di cui parlo all’inizio sono sempre meno; ci sono ormai queste grandi catene di locali, però le persone che stanno lì provano comunque a mantenerla questa identità, che ha un valore molto poco di destra, come purtroppo da noi avviene, e invece lì è molto conservativo proprio nell’aspetto più interessante della loro cultura, molto inglese.
Alla luce di tutto ciò, tu avresti potuto fare una guida simile per altre città, oppure questo connubio forte tra città e Smiths, e tra te e Smiths ha reso questo progetto inevitabile? Da viaggiatrice quale sei avresti potuto avere quello stesso spirito per un’altra città?
Rispondo in maniera molto onesta, sto scrivendo altre cose e di fatto la mia dimensione preferita nella scrittura è proprio la scrittura “ibrida”, dove comunque il viaggio c’è sempre perché la letteratura di viaggio mi si addice molto e sto continuando a farla, quindi no, non è una cosa esclusiva della città di Manchester, il connubio è diventato importante alla luce di altro.
Voglio dire, in questa città io probabilmente non ci sarei mai finita se non ci fossero stati gli Smiths, perché sono andata lì perché c’era il “Moz Army Meet” unicamente insomma per gli Smiths, di conseguenza non l’avrei mai forse raggiunta nè tanto meno raccontata, è stato un magico incontro che è successo, mi ha dato questo libro e mi ha reso ovviamente felice!
Su cosa sei impegnata adesso? Hai in previsione quindi un altro libro o hai altri obiettivi su cui stai fissando il tuo focus?
Io so che mai come in questo momento è la scrittura la dimensione che sento più vicina al mio essere: ho sempre fatto la giornalista, mi sono occupo da tanto tempo di comunicazione e questa pubblicazione mi ha dato ovviamente anche della fiducia no? Pure dal punto di vista narrativo, mi ha sbloccato qualche insicurezza perché poi ce ne stanno mille in Italia, scrivono migliaia di persone e perché mai la gente avrebbe dovuto leggere proprio me? Erano domande che mi facevo prima di pubblicare “A Manchester con gli Smiths”.
E il successo di questo libro non ti ha cambiato le prospettive?
Sì, me le ha cambiate molto, sebbene sia sempre stata molto convinta delle mie cose non avevo mai pensato di pubblicare, perché pensavo come detto che pubblicano un sacco di persone, cosa aggiungo io a questo “parlatoio”? Invece quando ho pubblicato il libro ho visto non solo recensioni di giornalisti che ovviamente sono importantissime, ma anche tutte le altre reazioni di persone che lo hanno apprezzato e che mi hanno trasmesso questo.
Quando tu vedi i librai e le libraie che prendono il tuo libro, ci fanno i gruppi di lettura, lo mettono in vetrina, ti invitano; i lettori che ti scrivono: “quando fai il prossimo?”, ecco questo per me è veramente carburante alla mia autostima, anche alla mia voglia, chè poi sembra che stia per dirti una cosa retorica ma credo proprio non lo sia, cioè che la scrittura è sicuramente un conoscersi, (quindi c’è anche una componente di narcisismo che può essere anche buono e positivo se non sfugge di mano), ma diventa soprattutto condivisione, assolutamente, nel momento in cui qualcuno che ha letto il mio libro si è fatto poi a sua volta un viaggio.
Addirittura c’erano persone che mi taggavano su Instagram, almeno una decina che sono andati a Manchester col mio libro e per me questa è una delle cose più gratificanti. Perciò l’idea che io sto scrivendo un’altra roba che farà magari immaginare, viaggiare, ridere, piangere qualcuno, mi mette in comunicazione e mi fa sentire ovviamente bene, mi fa sentire connessa ecco.
Sei diventata un po’ un esempio per tante persone, che hanno preso spunto magari da te per realizzare esperienze simili sulle orme dei loro miti; poi il libro è scritto bene e trasmette una passione autentica per la musica che nel tuo caso non ha perso centralità. Oggi quali sono i tuoi ascolti contemporanei? O avendo fatto questo grande tuffo nella storia degli Smiths sei rimasta una “passatista”?
Scrivendo un libro sugli Smiths mi dicono in tanti la frase “sei una passatista” e mi sta anche bene, soprattutto se riferito al post-punk odierno rispondo: “oggettivamente sì”, perché i gruppi attuali li trovo sin troppo derivativi, li ascolto ma è come guardare le fotografie quando eri giovane, non avevi le rughe ok ma che senso ha? Quando sono in macchina se mi capita un pezzo lo ascolto ma se devo fare delle playlist è difficile che ci finiscano questi artisti.
Detto ciò faccio una ulteriore premessa, il libro inizia con me diciannovenne che sogna di fare la giornalista musicale, proprio nel momento in cui la musica si smaterializza, finiscono le redazioni musicali, è la fine di un sogno insomma, ma tenace invece vado avanti a perseguire l’obiettivo, mando un curriculum vuoto e il sogno è disintegrato immediatamente! Almeno così parrebbe andare ma in realtà la musica è rimasta sempre presente in me da ascoltatrice, fruitrice bulimica oserei dire.
Oggi invece mi occupo anche di ufficio stampa e questo libro mi ha riconnesso pure con i tutti i monomaniaci pazzi che in “Alta fedeltà” definivano “gente a un passo dalla pazzia”, tipo i collezionisti. Esistono ancora, sì! Siamo una famiglia quindi stringiamoci!
Per ragioni pratiche, scrivendo per lavoro, ho bisogno di una musica che mi accompagni come sottofondo, raramente di questi tempi ascolto roba cantata con dei testi, sono soprattutto pezzi strumentali di elettronica, i classiconi tipo Brian Eno, William Basinski e il suo “The Disintegration Loops”, poi cose tipo Floating Points, gli Autechre, i Boards of Canada, altre ancora che ho inserito in una mia recente playlist a base di musica liminale, Atmospheric Electronic Music: quelle musiche che riproducono i suoni della tempesta, della pioggia ormai sono per me degli ascolti costanti, che mi servono anche la sera per la meditazione o per altro. Spazio ancora molto nei generi, passando dal new jazz elettronico del mancuniano Alabaster dePlume all’artista greca Stella che propone questo rebetiko wave in un album come “Up and Away”.
Giunti in chiusura, nel salutarti e ringraziarti per la tua gentilezza e disponibilità, potresti dirci quali sono le tre canzoni della tua vita e indicarmene una che rappresenti questa nostra chiacchierata?
Grazie mille a te Gianni, mi sono divertita molto! Caspita, questa è una domanda da un milione di dollari.
Ci devo pensare un po’ su e ovviamente mi restano fuori pezzi importanti, ma le classifiche esistono anche per questo e quindi le tre canzoni che seguono sono quelle che, in un modo o nell’altro, stanno sempre con me: “We’ll Let You Know” di Morrissey, “Levi Stubbs’ Tears” di Billy Bragg e “Bless The Telephone” di Labi Siffre.
Quanto alla canzone della nostra intervista non può che essere “Coffee and TV” dei Blur (con balletto delle buste di latte annesso!)