C’è qualcosa che mi fa sempre particolarmente male nei film di Natale, specie in quelli come questo “The Holdovers”, nei quali le festività scoperchiano un vuoto, un’assenza, un desiderio di normalità. Più mi fanno male, più mi fanno però bene sul finale, quando il vuoto viene colmato, l’assenza ripiegata e la normalità, anche solo per un’istante, assaporata.
E quindi inizio col dire che “The Holdovers” mi ha fatto tanto male e tanto bene.
Un professore di storia antica particolarmente severo e risentito verso gli studenti ricchi della scuola privata dove presta servizio, la cuoca di colore della scuola che ha appena perso un figlio in Vietnam e uno studente sono costretti da una serie di circostanze sfortunate a trascorrere le vacanze di Natale, tutti soli, nel campus innevato. Ovviamente la solitudine natalizia di ciascuno di loro è lo specchio di una disperazione, di una depressione più grande.
Insieme, chi più e chi meno, si salveranno un po’.
Fin qui tutto regolare.
Mettici però un’alternanza perfetta di tempi comici e drammatici, battute memorabili accatastate copiose come legna in una baita di montagna, sguardi che ti squarciano l’anima, una fotografia che fa sembrare il film una pellicola davvero girata tra il ’70 e il ’71, scelte musicali che hanno dell’iconico (Cat Stevens, Badfinger, Damien Jurado, etc etc) e ti viene fuori un film che rimarrà, un classico istantaneo.
Che poi Payne, finalmente tornato alla forma che gli compete, di film così ne ha già fatti tre. Questo forse però è proprio il più bello. O forse siamo solo pericolosamente vicini a Natale e io sono particolarmente sensibile.
E Paul Giamatti. Punto. Paul Giamatti.