Il 1985 (post)punk di Ryan Adams. Dell’iper-produttività dell’artista di Jacksonville ne abbiamo già parlato in maniera approfondita, evidenziando – tra l’altro – i paradossi scivolosi dello streaming moderno. Questa, invece, vuole essere una recensione – urbi et orbi – di quello che, probabilmente, almeno per chi scrive, è il disco migliore tra i cinque pubblicati all’alba del nuovo anno (gli altri sono, in rigoroso ordine alfabetico, “Heatwave”, “Prisoners”, “Star Sign”e “Sword & Stone”).

Credit: Drew de F Fawkes / CC BY

Che si tratti di bulimia creativa o dell’urgenza comunicativa di un artista che negli ultimi anni – a causa delle proprie, discutibili vicende personali, è stato relegato un pò ai margini dello star system – il lavoro svolto dal vecchio Ryan in questo “1985″ risulta piuttosto convincente. Condito di una brillantezza démodé difficile da riscontrare in altri lidi. Ventinove pezzi di breve, brevissima durata in cui il Nostro ha dato vita a tutto quell’immaginario chitarroso di metà-Eighties che parte dai Replacements ed arriva fino agli Hüsker Dü di “New Day Rising”.

Non è la prima volta che Adams prova a rileggere il passato. Qualche anno fa, per esempio, all’apice della sua fama, ha contribuito ad apporre sulla mappa della scena alternativa – consacrandone, di fatto, il grande successo – quel bel dischetto che risponde al nome di “1989″. Sì, proprio quel “1989″. L’opera che ha catapultato definitivamente Mrs. Taylor Swift nell’olimpo della musica pop.

Sin dalla tumultuosa traccia d’apertura, “Dark Places”, i brani di “1985″ scorrono via leggeri come pomeriggi adolescenziali. Certo, c’è della rabbia recondita nei (tanti) pezzi che vanno a comporre la tracklist. Come nel caso di “Rat Face”: un pugno di note ruspanti urlate in faccia ai periodacci – meritati o non – vissuti da Ryan negli ultimi tempi. Ciò che colpisce maggiormente dell’album in questione, tra le altre cose, è la sua produzione impeccabile. Una vera e propria Mecca goduriosa per gli amanti dei “cuffioni” e dei suoni realizzati quasi come se fossero olio su tela.

Ritornando, invece, al mero aspetto musicale, non possiamo non sottolineare la versatilità stilistica di un autore che riesce a trasformare la propria sensibilità artistica in una sorta di jukebox punk per anime spettinate. Prendete “On A Side”, penultima traccia del disco – nonchè quella con la durata più lunga – : cos’altro è se non un inno maledettamente schietto per tutti gli outsider del globo terrestre? “Come fai a sopportare quelle persone tutto il tempo? / È come se i fuochi d’artificio e la benzina esplodessero nella mia mente.“. Lyrics del genere, lasciano veramente poco spazio all’immaginazione.

Non ce ne vogliano il classic-rock di “Heatwave”, la versione live di “Prisoner”, il country Ottantiano di “Star Sign”, l’epicità di “Sword & Stone” – gli altri album sopraccitati e pubblicati da Adams agli albori del 2024 – ma tra i corridoi grigiastri di “1985″ – che probabilmente, dai più, saranno poco battuti – si nasconde la vera essenza dell’artista del North Carolina.

In barba alla democrazia opaca della Cancel Culture.