Partiamo dalla fine, dalla scintillante e barrettiana “Golden Hair”, con la quale gli Slowdive si congedano dalla loro gente, consapevoli di aver alimentato un fuoco, di aver acceso una speranza e di aver esorcizzato il buio che, spesso, circonda le nostre vite, rendendo l’invadente oscurità, che le tormenta, un luogo sospeso e senza tempo nel quale poter essere sé stessi e seguire traiettorie, che, in altre circostanze, sotto la pressione della mondanità, avremmo, sicuramente, evitato.
L’Estragon ha dischiuso i nostri cuori incasinati alle sonorità e alle atmosfere intime della band inglese; trame, incantevoli e riflessive, che ci confortano con il vino shoegaze di “Alison”, sorridendo, amorevolmente, a tutti i nostri scompensi emotivi, alle nostre interminabili pause, ai nostri lutti immaginari, ai vuoti malinconici e alle micidiali trappole di disagio, nelle quali, sovente, ci lasciamo, voluttuosamente, sprofondare.
Il primo colpo, dalle intense ed energiche ritmiche post-punk, è stato quello dei Pale Blue Eyes, la band che ha aperto la serata bolognese, dopodiché ci siamo immersi in un mondo etereo fatto di baci nevosi, di alberi magici, di gatti parlanti, di fantasmi ballerini, di montagne russe e di ombre proiettate sui muri, oltre ogni forma di gelosia, di avidità e di falsità; le quali, quotidianamente, non fanno altro che distruggere ogni relazione, ogni verità, qualsiasi tentativo di solidarietà, rendendo i nostri paesi e le nostre città luoghi di triste sopravvivenza, ricoperti da un sottile strato di zucchero a velo, sotto il quale, però, ogni idea, ogni scelta e ogni atteggiamento si riducono ad un conto bancario, ad una questione di potere, ad un esercizio virile, ad una sfoggio di ricchezza, ad un puro e bestiale istinto di sopraffazione.
La band, scioltasi nel 1995, non è affatto restata cristallizzata in un’epoca oramai lontana, e ciò lo dimostra il suo pubblico, le generazioni diverse che condividono i medesimi sentimenti, gli stessi bisogni e che fanno le identiche domande, reclamando tutte quello spazio esistenziale autentico, che al di là delle mode passeggere, degli schemi precostituiti, delle politiche di compromesso e dell’estetica virtuale di questo secondo millennio, ci viene, puntualmente, negato, fingendo di non accorgersi del baratro di dolore verso il quale stiamo correndo. Vorremmo tutti fuggire, magari sulla “Souvlaki Space Station”, ma sappiamo benissimo che non sarebbe giusto, nei confronti di coloro che resterebbero indietro, nei confronti di questo spettacolo che è, allo stesso tempo, personale ed inclusivo, nei confronti di quel sogno, di quell’ideale, di quella risposta che, già una volta, gli Slowdive celarono agli sguardi indiscreti del grande fratello, ma che adesso – più consapevoli, più completi, più saggi, più forti – hanno scelto di condividere. Ed in un’epoca storica senza più sogni, senza più ideali, senza più risposte, tutto ciò è un tesoro prezioso da custodire, da tramandare, da difendere, da ascoltare, da cantare, da vivere.