Tornano a farsi sentire anche i Grandaddy, e francamente con enorme sorpresa perché dopo il lutto che li colpì esattamente sette anni fa, ovvero la perdita del bassista Kevin Garcia, storico fondatore, e la ragionevole cancellazione del successivo tour, pensavo che fosse stata scritta la parole fine sul progetto capitanato da Jason Lythe, un po’ anche perché il succitato ritorno del 2016 con l’ottimo “Last Place” appunto, avveniva dopo anni di silenzio, che già quelli fecero presagire ad una conclusione, certificata anche da un percorso solista dello stesso Jason.

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E invece tutto può essere smentito e, mai come in questo caso, con felicità di chi li ha sempre seguiti ed ammirati, di fatto tra i padri fondatori di un certo pop underground, esportato poi verso grandi lidi e platee.

Penso di poter dire tranquillamente che quei tre album centrali della loro carriera, siano ancora oggi, oltre che freschi ed attuali, un vero e proprio punto di riferimento per chi ama queste sonorità, forse musica d’altri tempi, direbbe qualcuno, ma che musica.

Canzoni scritte con un talento infinito e sempre ben confezionate e prodotte, con un eccellente senso della sintesi e un gusto sopraffino.

Il nuovo disco “Blu Wav”, non aggiunge nulla in termini di sorpresa, però conferma quanto scritto poc’anzi, si mantiene inalterato un certo marchio di fabbrica, fedele a se stesso, ma anche una scrittura solida e colorata a tinte pastello di Lythe, con il suo timbro vocale cullante e inconfondibile.

Quindi ci sono le canzoni, come dovrebbe sempre essere in ogni album, e qui ce ne sono tante e bellissime, sincere, autentiche, sofferte e vissute, particolarmente ispirate come ai tempi del loro periodo d’oro ormai più di vent’anni fa.

“Watercolor” uscita da un paio di mesi, ci riporta esattamente al 2002, quasi fosse un outtake nascosta di “The Sophtware Slump“, con quella malinconia agrodolce, riflessiva e pensierosa. Grazie Jason per questa canzone.

Mentre “Cabin in my mind” arriva leggera, leggera per riscaldare l’anima nei mesi freddi e uggiosi, davvero notevole.

Il semplice racconto acustico di “Ducky, Boris and Dart” o il nutriente pianoforte di “East Yosemite” messo al centro dell’attenzione, ma accompagnato da un delay di chitarra e il soffice cantato in una struggente melodia da spleen catartico.

Ma anche il sospiroso incedere di “Nothing To Lose”, che chiude con una crescente coda strumentale obliqua che congeda l’ascolto.

Un paio di giorni prima della release ufficiale, è stato rilasciato anche il surreale clip della ballad “Long As I’m Not The One”, ironia e tristezza di fondo a braccetto per una canzone prepotentemente ai piani alti in un ipotetico best of.

Un disco adulto, pieno di pensieri e ricordi, introspettivo, riflessivo, sognante, assorto, sicuramente fragile, a tratti commovente, ancora più bello, perché, come detto sopra, inaspettato, a mio avviso un ritorno sopra le righe, destinato a rimanere a lungo tra gli ascolti frettolosi della musica di oggi, un album e una band da tenerci stretti stretti.