La Tigre si è risvegliata, il suo cuore brucia intensamente, stretto tra il basso, la chitarra, la batteria e i sofferenti, nostalgici ed oscuri echi, riverberi e richiami al glorioso passato di Seattle, mentre le sue irruenti, pulsanti ed amare divagazioni sonore mettono, nel frattempo, nel proprio mirino musicale, il nostro fragile, tossico, occulto, iper-tecnologico e virtuale presente. Ma il ricordo di ciò che è stato, di un’epoca che, oggi, sappiamo essere stata più audace, più ingenua, più pura e più veritiera, non si trasforma mai in una confortevole e avvilente distrazione, né nel tentativo di voltarsi dall’altro lato, fingendo di non vedere il Male e affidando, di conseguenza, il controllo delle nostre scelte e delle nostre decisioni ad individui, enti, governi, istituzioni, imprese o organizzazioni esterne, il cui unico obiettivo è quello di metterci in gabbia.
Certo, si tratta, spesso, di una gabbia più o meno dorata, di una gabbia più o meno comoda, di una gabbia più o meno conveniente, ma è, pur sempre, la fine innaturale ed artificiale delle nostre idee, delle nostre passioni, dei nostri sogni, il tempo in cui i castelli crollano e le fiamme si assopiscono.
“Echoes”, intanto, fregandosene del successo fasullo, delle forme surrogate di appagamento personale e delle morbose ed invadenti religioni mediatiche fondate sugli algoritmi e sui codici binari, tramuta quella che è una condizione di triste e cupa consapevolezza sonica, nell’irruenza veemente di “Stones”, facendo sì che il disco possa aprirsi a sonorità sempre più eterogenee, alla ricerca del rumore perduto, delle percezioni perdute, delle sensibilità perdute, delle narrazioni perdute, dei futuri perduti e lasciando che le darkeggianti, amare e sofferte intuizioni di “Endless” incontrino l’irruenza punkeggiante, energica e liberatoria di “Afterwards”.
La band non cerca alcun auto-compiacimento, nessuna auto-assoluzione, nessuna inutile scusa, vuol solamente guardarsi dentro, accarezzare le proprie ferite – le nostre ferite – amarle e odiarle, sfidarle e accettarle, rammentarle e condividerle, costruendo paesaggi e trame sonore uniche, lisergiche ed inebrianti, e, soprattutto, rimettendo il proprio viscerale e focoso shoegaze, i suoi bassi profondi, le sue distorsioni laceranti, i suoi feedback incendiari, la sua arrogante, pretenziosa e preziosa intimità, nonché la voglia tenace di contatto corporeo, al centro del proprio linguaggio creativo ed emozionale, così da costruire ed amplificare quelle che sono la loro attitudine e la loro visione collettiva, partecipativa ed inclusiva del mondo e della realtà. Perché divisioni, limitazioni, muri e confini non esistono; ciò che esiste, invece, seguendo la linea cosmica e filosofica, che va da Giordano Bruno ad Isaac Asimov, è un’unica, sola, indivisibile umanità.