Delicatezza eterea e piccole schegge del brit pop che fu. Il ritorno dei Cast – a ben sette anni dall’ultimo album, “Kicking Up the Dust” (2017) – sulla scena discografica internazionale, è una di quelle notizie che rallegrano il cuore di chi, nel corso degli anni, ha amato profondamente la voce dell’iconico leader John Power e le solide linee di chitarra disegnate dal sempre efficiente (e mai troppo celebrato) Liam “Skin” Tyson.
“Love Is The Call”, questo il titolo della nuova opera della band di Liverpool, è un lavoro omogeneo, variegato, che scorre via con una sorta di “malinconica” leggerezza che non sfocia quasi mai negli stagni paludosi della piattezza musicale. Tutt’altro. Negli undici brani che vanno a comporre la tracklist del disco in questione, infatti, i Nostri si spingono su più fronti sonori, sciorinando tutte quelle peculiarità che li hanno resi uno dei gruppi britannici più apprezzati di sempre.
Già. Perché, tra le nobili pieghe di pezzi dannatamente convincenti quali “First Smile Ever” (giro di basso superlativo di cui si è occupato John in prima persona) e, soprattutto, “The Rain That Falls” (siamo dalle parti del debut, “All Change”), l’urgenza compositiva di Power e soci appare piuttosto evidente. Si tratta di due brani tiratissimi, ariosi, oltremodo incisivi, che ben rappresentano la “new era” dei Cast. E cosa dire della splendida mid-tempo in odor di epica che risponde al nome di “Faraway”? Cinque minuti ed otto secondi di magia a tinte chitarrose. Poco da dire.
“Love Is The Call”, però, è anche il solito, ottimo drumming del buon vecchio Keith O’Neil. In tal senso, ne è un fulgido esempio “Starring Eyes”, traccia centrale del lotto, forse la più scanzonata dell’intero album. Del resto, quando si pensa ad una band come quella dei Cast, non si può fare a meno di sottolinearne l’estrema (maniacale) cura per i dettagli ed una visione d’insieme che non ha mai snaturato la riconoscibilità della loro proposta artistica. Anzi. Basta ascoltare il blues-rock della title-track per rendersi conto di trovarsi di fronte ad un gruppo che (forse) non sarà ricordato come l’alfiere più blasonato della musica britannica ma che nel corso tempo, a modo suo, ha comunque tenuto alta la bandiera della propria coerenza stilistica.
Ed allora, provando a tirare un po’ le somme, potremmo definire il ritorno dei Cast come la nuova, dignitosissima sortita musicale di una formazione che non ha più nulla da dimostrare. Neanche a sè stessa. Va da sè, naturalmente, che il magico triennio (1995-98) sia stato lasciato oramai definitivamente alle spalle; tramontato, come un sole congedatosi troppo in fretta dalle nuvole.
Ciò nonostante, i tre ragazzoni di Liverpool hanno sfornato un lavoro che non sarà dello stesso livello di “Mother Nature Calls”, ma che (ri)presenta, sullo scivoloso proscenio dell’alternative-rock internazionale, una band in grande, grandissimo spolvero.
E a ‘sto giro va bene così.