Nell’oscurità del panorama musicale alternativo, i So Pitted emergono come un’entità enigmatica con il loro secondo lavoro in studio, intitolato “Cloned”. L’album si presenta come un monolite sonoro, un viaggio attraverso le viscere di un genere che si nutre di distorsioni e rabbia incontrollata. La band di Seattle, a distanza di otto anni dal debutto con “Neo”, non ha perso la propria identità, anzi l’ha affinata, plasmando un sound che è un crogiolo di industrial, noise rock, post-punk, grunge e sludge metal.
La produzione dell’album non lascia spazio a compromessi, esaltando ogni aspetto crudo e tagliente del quartetto. La scelta dei suoni è meticolosa; ogni riff e colpo di batteria è calibrato per creare un’atmosfera densa e opprimente. Tuttavia, questa stessa pesantezza che caratterizza “Cloned” diventa la sua spada di Damocle. La costante ricerca di un’estetica sonora estrema si scontra con la necessità di mantenere vivo l’interesse dell’ascoltatore, rischiando di sfociare in un’esasperazione che sfianca più che coinvolgere.
Le tracce si susseguono con una coerenza stilistica ineccepibile ma ciò che manca è una dinamica che sappia rompere la monotonia dell’heaviness. I So Pitted hanno delle idee chiare e una visione artistica definita ma, in più di qualche passaggio, sembrano quasi trattenersi, come se la volontà di non conformarsi li portasse a una cautela eccessiva nell’esplorare sonori più sostenibili e “umani”.
Nathan Rodriguez, con la sua voce, si pone come il narratore di questo viaggio tenebroso, ma a volte sembra stonare con il contesto, come se la sua interpretazione fosse un elemento estraneo piuttosto che il collante di un’opera complessa. In definitiva “Cloned” è un album che, nel bene e nel male, non lascia indifferenti; si fa apprezzare per la sua originalità e la sua sfida ai canoni del genere ma, allo stesso tempo, pecca di un’eccessiva autoreferenzialità che ne limita la portata. Un lavoro che, nonostante le buone premesse, non riesce a liberarsi completamente dei propri freni interni.