A fine 2022 il belga Thomas Frank Hopper ci colpiva in modo positivo con il suo album. In sede di recensione di “Bloodstone” sottolineavo in premessa come “tra sterile manierismo e rivendicazione di quale debba essere il “giusto” grado di revivalismo, può succedere , e per fortuna accade ancora, che una nuova uscita discografica, di un autore che non conosci , possa destare la tua attenzione riconciliandoti con ciò che rimane del classic rock al netto di qualisiasi definizione dello stesso. In poche parole finalmente lasci perdere le ennesime chiacchere sui Greeta Van Fleet o sui prossimi eredi dei Rival Sons e ti lasci trasportare dalla qualità contenuta nei solchi di “Bloodstone“.
Non serve richiamare un supposto esaurimento dell’effetto sorpresa per giustificare un minor entusiasmo seguito all’ascolto del nuovo “Paradize City”, bensì il constatare una minor freschezza del songwriting, dove a tratti in alcuni brani pare aleggiare una certa forzatura nel ricercare un refrain vincente.
Rispetto al precedente è aumentata la percentuale di classicità, presente anche prima ma sicuramente “più speziata”, anche se il nostro sembra compensare la cosa con la volontà di ampliare il suo ventaglio sonoro negli arrangiamenti.
Se per “Bloodstone” sottolineavo come il taglio classico fosse maggiormente impreziosito da un gustoso mix tra sensibilità europea ed americana, con richiami al “modernismo vintage” dei pluripremiati Black Keys, con il blues sempre presente ma virato alla sensibilità odierna, ecco che, per questo nuovo lavoro, manca quella spinta che gli permetta di uscire dalle sabbie mobili di una proposta un po’ troppo scolastica.
Resta in ogni caso un album che, per gli amanti del rock più classico, rimane un oggetto prezioso e che immagiamo porterà a casa ascolti e lodi: le abilità di Thomas sono indubbie, il talento però dovrà essere messo però alla prova nuovamente nel prossimo album.