Nel suo vero primo disco solita, l’artista afroamericano si allontana drasticamente dai ritmi sostenuti della sua più recente produzione , abbandonando non solo genere ma lo stesso sax tenore, virando verso un album quasi di rifugio, in cui forse esaurire la sbornia sonora di A comet is coming o Sons of Kemet ad esempio, verso una dimensione sicuramente più intima, spirituale, devota; una devozione che fin dal titolo si fa verbo pastorale, in una sorta di preghiera sonora dedicata a suggestioni probabilmente legate all’infanzia e ai suoni con cui è cresciuto, dove si abbandona quasi del tutto l’elemento percussivo a favore di soluzioni inattese e sorprendenti per certi versi.
Shabaka qui col solo suo nome recupera dei canoni di musica ancestrale scovati forse dai patrimoni religiosi e/o di cultura popolare come delle liturgie di gruppo, delle vere e proprie messe in musica di preghiere, avvicinando un sentire vagamente jazz ad una materia quasi ambient, in un contesto armonico minimale dove viene inserita prepotentemente la sua nuova forma espressiva, cioè l’utilizzo di flauti come strumento principale, con la sua voce dolce, intatta e così penetrante, dove il lirismo si collega emotivamente ad un nuova modalità del leader , non più alle prese col movimento dei corpi, ma con ciò che ai corpi è sotteso, l’aspetto quasi di sottomissione a riflessioni a volte malinconiche, a volte sofisticate e strettamente poetiche, che subiscono lo stesso trattamento di sincerità da parte di Shabaka al pari di un contesto tellurico come quello delle sfuriate col sax tenore.
Questa Bellezza percepita, questa Grazia da conoscere il cui soggetto non può essere altro che la stessa divinità della musica, l’artista londinese la insegue attraverso un nutrito gruppo di collaboratori, tra i quali Andrè 3000, primo ispiratore di questa deviazione strumentale, il poeta Saul Williams, Moses Sumney e Floating Point che aggiunge il suo tocco digitale psichedelico al brano forse più riuscito dell’album, quella “I’ll Do Whatever You Want” in cui le sonorità del recente “Promises” riappaiono a stringere una connessione con lo spirito di Pharaoh Sanders, presente in altri momenti in questo album.
Lontano dalla immediatezza del repertorio passato, “Perceive Its Beauty, Aknowledge Its Grace” necessita di pazienza e attesa del momento giusto per essere apprezzato, in linea con l’intensità delle riflessioni personali che Shabaka emana con i suoi flauti e convoglia in una forma difficilmente definibile, lontanamente assimilabile a jazz se non nella libertà dei suoni, ma che ha molto a che fare con un mood alto new age, delle partiture d’ambiente liquide e al solito intriganti, con diversi registri che vanno dallo spoken al rap alle ballads, sempre in un’atmosfera pacata e personale, ma non priva di eterogeneità.