Il nuovo capitolo discografico della reginetta d’America, ovvero, una carrellata di brani – ben trentuno – che spaziano dal pop più patinato (nonché vero marchio di fabbrica della Nostra) all’indie-folk, passando per il “Boss” di “Tunnel Of Love” ed i Bleachers del fido Jack Antonoff (nuovamente deus ex machina dell’intero progetto). Insomma, “The Tortured Poets Department”, l’ultimo lavoro in studio di Mrs Taylor Swift, fidanzata d’America e del vecchio Travis Kelce (gran giocatore di Football Americano, sottolineiamolo), è un album dalle mille sfaccettature e non tutte propriamente luccicanti.
Ciò detto, va comunque segnalata l’alta qualità sonora proposta nel disco in questione. L’undicesimo album in studio della Swift, infatti, non rappresenta altro che un frullatore musicale in cui ritrovare reminiscenze dei precedenti lavori della popstar proveniente dalla Pennsylvania. Soprattutto di dischi quali “Lover” o lo stesso “1989″. Almeno nella prima parte del lotto.
Del resto, brani come “Fortnight” (cantato insieme a Post Malone) o “Florida” – che vede un featuring pieno di garra eseguito in compagnia di quel mostro sacro che risponde al nome di Florence Welch (aka Florence + The Machine) – stanno lì a dimostrare quanta qualità recondita si nasconda dietro le opere di Taylor Swift. Poco da dire. La suddetta qualità, però, viene spesso smarrita – sacrificata – tra i meandri impervi (e tediosi) di un chiacchiericcio (gossipparo) piuttosto fine a sé stesso. Alquanto deleterio. È la dura legge del mainstream.
Epperò, questo “The Tortured Poets Department” è un album che si lascia ascoltare con estrema piacevolezza, pieno com’è di rimandi gustosi ad un passato (gli 80s) che oggi è diventato di estrema attualità (forse troppo). Prendete l’intro di un pezzo come la title-track: ascoltando il sound glitterato della batteria non si può fare a meno di pensare a lavori del passato che si affacciano dalle parti del sopraccitato Bruce Springsteen (anni Ottanta) e che arrivano fino all’alternative dei primi Novanta.
Le note dolenti, invece, riguardano la troppa autoreferenzialità di un prodotto che – almeno per chi scrive – s’innalza decisamente oltre la sufficienza, ma che – spulciando i temi trattati nei testi – non riesce ad andare al di là delle solite storielle melense e per cuori infranti messe in musica dalla Taylor mondiale. Va da sé, naturalmente, che nella seconda parte del disco – curata da “un certo” Aaron Dessner dei The National – l’atmosfera si faccia un po’ più eterea e delicata, pur restando ancorata – com’è logico che sia – a dei dettami ultra-pop che nulla aggiungono alla resa finale di “The Tortured Poets Department”.
Provando a tirare le somme, dunque, potremmo definire il nuovo disco di Taylor Swift come una sorta di contenitore dorato in cui ognuno, volendo, potrà ritrovare una traccia o un suono consono al proprio background musicale. Siamo però lontani dalla freschezza di lavori, forse più immediati e meno preconfezionati, come “1989″ (per restare in ambiti più pop) o lo stesso “Folklore”. Probabilmente, Taylor Swift necessiterebbe di pause più prolungate tra un album e l’altro. Qualità ed ispirazione reggono ancora (da lì il nostro 7), sia chiaro, ma ai testi andrebbe data una riverniciata dalle tonalità un tantino più spregiudicate.
Tradotto in soldoni, bene ma non benissimo.