Al settimo album Annie Clark decide di fare tutto da sola, autoproducendosi questo “All born screaming”, senza disdegnare la solita infornata di ospiti di spicco, ma dando un senso ancora più personale ai suoni, senza filtri o manipolazioni se non quelle indotte dalla sua percezione, come se il tempo passato into the woods, come dicono le note di stampa, abbia permesso di fissare solo nella sua testa il modo in cui dovevano uscire queste nuove 10 canzoni.
Di fatto, la produzione personalizzata altro non è che l’ulteriore step di una carriera frenetica in cui l’ego espressivo riesce difficilmente a trovare punti di equilibrio, il movimento costante è un segnale iperdistintivo sia per i territori musicali affrontati che per i cambiamenti di stile e di outlook. Se ad esempio il precedente “Daddy’s home” era un devoto e sentito omaggio alle atmosfere anni 70 che contaminavano l’infanzia di Annie, album che si distanziava dall’elettronica sinfonica e sincopata di “Masseducation”, qui siamo di fronte forse al disco più sincero finora fatto uscire dall’artista statunitense, in cui la vena compositiva al solito super compressa con scatti ed accelerazioni, sfoggio esuberante di tecnica e di estrema duttilità nello sviluppo dei brani, porta ad un pastiche del tutto consono di diversi generi, una specie di sintesi o meglio appunto un menù completo dove sentirsi liberi di scegliere le cose preferite. Non sempre è detto che tutta questa operazione ecumenica porti a risultati migliori o peggiori in premessa, anzi, ed in effetti dove si accelera si stona (“Broken man” con Dave Grohl), dove si riempie troppo sa di virtuosismo fine a sè stesso che è un pò il tarlo di Annie, del reggae proprio non si sentiva l’esigenza (“So many planets”), come per forza mettere il dolce di contorno a fine pasto, mentre indiscutibili sono le sue capacità di tirare fuori emozioni su poche linee di fondo, come succede nelle due canzoni iniziali, da prendere come una suite elettronica: “Hell is near” sarebbe stata di diritto molto bene all’interno dell’ultimo album di TORRES, mentre “Reckless” è una splendida ballata con finale gospel digitale che non ti aspetti, oppure la finale titletrack in cui finalmente ci si concede un brano oltre i 4 minuti che con l’ausilio di Cate Le Bon, passa da un pop quasi Vampire Weekend ad una coda epica con coro molto suggestivo, da perfetta colonna sonora da titoli di coda.
Il punto è che St. Vincent continua da un pò a non disdegnare l’idea di un meccanismo di creazione dell’aspettativa della sorpresa, come se fossimo abituati a scoprire comunque qualcosa di nuovo dalle sue nuove peripezie, ponendo probabilmente una spinta non del tutto naturale alla fondatezza delle sue intenzioni, quando a volte servirebbe molto meno per rendere più amalgamato il contenuto degli album e soprattutto duraturo l’insieme, perchè a volte queste canzoni mancano di quella sostanza che le renda persistenti, di quella complicità con l’ascolto che permetta una loro durata nel tempo come se fossero degli appuntamenti da riprendere in mano piuttosto che delle occasioni per verificare un artista ad anni alterni.
Perchè St. Vincent lo è, è un’artista di talento che forse come nella copertina desidera e avrebbe bisogno di sentire il fuoco della passione, di sentirsi libera di urlare come un neonato, cosa che in effetti in questo album a volte succede, a volte non si avverte.