Credit: Fabio Campetti

Due concerti in Italia per The National, in giro in Europa a presentare la doppia pubblicazione dello scorso anno, due album, che vanno a consolidare, qualora ce ne fosse ancora bisogno, lo status mastodontico del collettivo del Cincinnati.

Sicuramente uno dei progetti più importanti degli ultimi vent’anni, sia per il blasone, ma soprattutto per la reale qualità buttata sul piatto, svincolata da logiche di mercato.

Campionissimi di un certo songwriting, sempre molto fedele a se stesso e sempre diverso, o comunque fatto di canzoni imperdibili, che hanno segnato un periodo lungo del cosiddetto indie d’autore.

Sta di fatto, che prima che esca, sai già probabilmente come sarà il nuovo album dei National, al tempo stesso, hanno quella dote unica e rarissima di riuscire sempre nell’intento di non deludere, pur ripetendosi, perché la matrice è la medesima, ma hanno questo talento che li porta a trovare in ogni disco nuovo quel guizzo che li mette sempre su un piedistallo, sopra gli altri, e questi ultimi due album pubblicati a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, di fatto un disco doppio separato, regalano, ulteriormente, una prova del nove ampiamente superata e non era certo facile dopo oltre vent’anni di carriera fitta di pubblicazioni, potrei prendere, per esempio, “Alien” brano a metà tracklist di “First Two Pages Of Frankenstein“, probabilmente quasi un plagio nascosto di se stessi, ma talmente bella da ascoltare a ripetizione.

Abituali in Italia, girata in lungo e in largo fin dal giorno zero, quando erano poco più che una band di esordienti, ritornano per questi due appuntamenti, al Carroponte stasera (credo per la primissima volta in assoluto nella location di Sesto San Giovanni) e all’auditorium parco della musica a Roma domani.

Scrivere dei National sembra quasi superfluo, si è detto tutto e il contrario di tutto, ma non il contrario ai complimenti che si possono sempre fare ad un ensemble di musicisti così, e visti i tempi avari di soddisfazione in merito, meglio tenerseli stretti.

Anche dal vivo sono una band da caratura mondiale, abituati a chiudere sempre in bellezza ogni line up, per la garanzia di successo assodata e confortante.

Aiutati da un repertorio enorme non fanno altro che supportarlo a dovere ed ogni concerto risulta una piccola festa d’ascolto, andando a ripetermi, una garanzia per ogni promoter, e sempre un piacere, per chi va a sentirli. Anche in Italia, c’è uno zoccolo duro, cementificato negli anni con tanto di fan club, con un’età abbastanza trasversale, forse non incontreranno esattamente i gusti della generazione zeta, almeno al momento, perché, lì la bolla “tic Tok” è imprevedibile, ne sanno qualcosa gli Arctic Monkeys, passati (almeno in Italia), da 10 a settantamila paganti.

Venendo al concerto in sè: i temporali di questa tormentata primavera hanno minacciato la messa in onda, ma tutto poi si è aggiustato con una finestra temporale senza acqua, affluenza più che buona, all’interno di una logica di aspettative da anno 2024, ed inizio puntualissimo per le 21.

Mentre per la scelta dei brani, beh loro fanno parte di quelle band, che non hanno una setlist fissa per tutto il tour, diciamo che variano abbastanza da concerto a concerto, anche se mettono un buon 70% di quota fissa, che, poi sono quei brani che, in qualche modo, non possono non fare, capisaldi di un percorso autoriale, che li ha portati fino a qui.

Potrei anche citarle tutte, ma mi limito a nominare una splendida “Conversation 16″ tornata prepotentemente tra le scelte, dopo un periodo vacante, o la stessa “Abel”, clamorosa nella dimensione live, ripescata dal primo vero capolavoro e spartiacque di carriera, quell’”Alligator” uscito nel 2005.

Concerto a dir poco indimenticabile quanto straordinario, anche a detta di molti presenti, che li rivedevano per l’ennesima volta, una delle performance migliori di sempre.

E’ stato tutto perfetto, dai suoni impeccabili, ad una scaletta ragionata e precisa, l’indie rock alternato alle emozioni di un cantautorato pensieroso e riflessivo, e loro in grandissima forma, reduci, per altro, da un altrettanto live plebiscito al Primavera Sound.

Gemelli Dessner inarrivabili, tra i musicisti migliori di questa generazione, con Aaron, che ha ormai raggiunto lo status di produttore di fama mondiale.

C’è una quota di musicisti aggiunti, in particolare un paio di collaboratori ai fiati ben inseriti ed amalgamati, assolutamente da valore aggiunto.

Base ritmica, che si conferma come altro asso nella manica.

Capitolo a parte Matt Berninger, probabilmente non il migliore interprete della storia, ma con un carisma fuori categoria, istrionico come non mai, un signore dei palchi, uno showman straordinario, e per il sottoscritto, questo tipo di approccio, molto empatizzante con il pubblico rimane un plus insindacabile, e la percezione è che stia passando un bel momento della sua esistenza.

Poco altro da aggiungere, se non God save The National.